Sarà anche uno stereotipo ma per molti (ex) bambini calabresi la cucina è qualcosa di ancestrale: il pane intinto nel sugo che cuoce per ore come nella scena finale di “The Goodfellas”, il profumo della frittata che ti richiama quando smetti di giocare a pallone per strada. I peperoni e patate. Per Salvatore Branda è sempre stata una parte fondamentale, fin da bambino, «dacché ho memoria ricordo una forte curiosità per il cibo e la cucina in generale». Come molti, è diventato chef anche in ricordo della nonna in cucina: «Sperimentare e provare, all’inizio, era un gioco. Ricordo i pomeriggi con nonna Mirella a Cosenza, al piano di sopra: e poi ho avuto sempre una forte curiosità, non sono mai stato timido a provare piatti nuovi, anche da bambino. I miei gusti non sono mai stati limitati, e ho avuto la fortuna di avere un papà con la passione del buon cibo e del vino, la fortuna di provare ristoranti anche fuori dalla Calabria. Anche quello è stato un privilegio».
• CHI È Salvatore Branda
Maturità classica nel 2006 al Telesio, poi a Milano gli studi in economia alla Bocconi: dopo una prima parte del percorso, ha iniziato a sentire che qualcosa non andava come pensava dovesse andare. Salvatore analizza le prospettive, il futuro, la serenità professionale e lavorativa. «Quando ho deciso di smettere con l’università si è trattato di fare una scelta, e proprio con mio papà discutevamo su cosa bisognasse fare a quel punto: all’epoca avevo 22 anni e lui mi disse “lo so che ti piace cucinare, ma un conto è farlo per gli amici e per la famiglia, un altro è farlo diventare il tuo lavoro, tutti i giorni per tante ore al giorno dovrai dimenticare feste e vacanze… devi renderti conto che si tratta di questo”». È partito tutto da lì. Una strada che porta a “La Sosta”, Swellendam, Sudafrica, a una guest house in stile olandese segnalata dalle guide internazionali.
Quando e perché ha lasciato la Calabria?
«Io decisi di provare a dare una seconda svolta alla mia vita, in realtà, lasciando Milano e tornando in Calabria. Conoscevo qualche ristoratore e avevo l’opportunità di entrare in qualche cucina, e così è stato: ho iniziato a Vibo Marina, all’Approdo, lì dovevo fare due settimane e non mi sono fermato più. Questa esperienza è stata l’occasione che mi ha portato a Lugano in un ristorante di nuova apertura gestito da calabresi, dove ho conosciuto la donna, Nina, che poi sarebbe diventata mia moglie – all’inizio eravamo due normalissimi colleghi. A Milano, in seguito, sono stato altri tre o quattro anni facendo altre esperienze, finché lei non mi ha convinto a fare un viaggio in Sudafrica, dove lei è nata ma che aveva lasciato da piccola per poi spostarsi in Inghilterra e Svizzera. Da quel primo viaggio sono stato “fregato” perché mi sono innamorato del Sudafrica, sorpreso dalla bellezza di questo Paese che è talmente vasto che ogni posto e scenario è diverso dal resto: sembra di avere cinque o sei paesi in uno, è una cosa di cui ancora mi meraviglio, e provo grande gioia quando giro per esplorare. Sfido chiunque a dire il contrario»
Rimpiange o le manca qualcosa?
«Ho ben pochi rimpianti. Le mie scelte le ho sempre fatte con la mia testa, anche quella che mi ha portato a fare questa scelta di vita, non così scontata: dapprima lasciare gli studi per diventare un cuoco, poi andare a farlo in un’altra parte del mondo. Sicuramente mi mancano la mia terra e la mia famiglia, alcuni profumi e sapori che solo in Calabria o in Italia si possono avere, e non potrebbe essere diversamente: sono realtà difficilmente riproducibili altrove, perciò la cucina italiana è così forte e così popolare all’estero, per la grande qualità e varietà dei prodotti che abbiamo, e soprattutto la conoscenza secolare su quei prodotti e ingredienti, di altissima qualità e legati al territorio. È una cosa bellissima. Penso a dei pomodori o a una cipolla che trovi solo in una zona della Calabria, ai fichi del Cosentino. Eccellenze che non puoi riprodurre. Quando poi vedo che un non italiano tocca con mano quello che provo a spiegargli, mi dice, puntualmente, “avevi ragione”. Ecco, questo mi manca: oltre alle abitudini nel posto dove sei nato e cresciuto, dove ti basta fare due passi e vedi gente che è cresciuta insieme a te, sei a casa, vedi volti noti. Al di là della mancanza di casa, insomma, di rimpianti ne assolutamente pochi, visto il posto bellissimo in cui vivo».
Cosa salva della Calabria?
«Tanto. La regione in sé è meravigliosa, basti pensare alla biodiversità, a due mari che la bagnano e alla montagna, tutto così vicino e concentrato, laddove non è stato deturpato un territorio unico e bellissimo. E salvo una buona parte dei calabresi – perché forse ho avuto la fortuna di conoscere solo quelli “buoni” – perché siamo gente fondamentalmente buona e onesta, nel senso che siamo genuini e diretti, a volte questo carattere viene frainteso perché spesso non ci facciamo problemi a dire in faccia quello che pensiamo. Però penso siano tratti che vengono apprezzati col tempo, perché ci si rende conto che alla fine di noi ci si può fidare: è questa una delle cose che salvo della Calabria e dei calabresi».
Cosa non le piace del posto dove vive adesso?
«Sicuramente che possano pensare di mettere qualsiasi cosa su una pizza (ride). Ananas, avocado, pollo… Più in generale non mi piace che la cucina italiana non venga rispettata per come dovrebbe, ma questo è in parte anche colpa degli italiani che si sono trasferiti qua e già da tempo, per compiacere i palati locali o comunque per standardizzare la scelta o forse per mancanza di audacia e coraggio nell’ostinarsi a voler mantenere le tradizioni della nostra terra e della nostra cucina, hanno poi finito per piegarsi a compromessi: il risultato, ma questo non vale soltanto per i ristoranti in Sudafrica bensì per tutti quelli italiani in giro per il mondo, è che non viene fatto onore alla nostra cucina. Poi, passando all’ambito sociale e politico, qui ci sono ancora tante contraddizioni e differenze non ancora livellate: purtroppo sono visibili, è una cosa che mi fa un po’ dispiacere, vorrei che si facesse di più, c’è una parte politica che ha interesse a poter fare leva su questa situazione. Io lo vedo venendo dall’esterno e per me è abbastanza evidente, per chi è cresciuto qui o non ha i mezzi e la chiave di lettura giusta diventa difficile distinguere chi è vittima o carnefice, chi è amico o meno».
Com’è strutturata la comunità dei calabresi nel luogo in cui vive?
«Non ho ancora incontrato un calabrese che vive qui. Non ho esperienza diretta, però ci sono decisamente tanti italiani qui, alcuni anche da generazioni. Hanno avuto diversi ruoli sia nelle infrastrutture che nell’industria agroalimentare, del vino. Con altri, hanno dato un buon apporto. Qui a Swellendam, comunità di per sé molto piccola e tradizionale legata alla cultura africaans e boera, con molte fattorie e grandi aziende agricole, ci sono pochi italiani, e di calabresi neanche l’ombra… probabilmente sono io l’unico per diversi chilometri».
Qual è secondo lei la forza dei calabresi fuori dall’Italia?
«Non so se si possa definire forza, ma in me stesso e in tanti altri corregionali che hanno fatto scelte più o meno simili alla mia è che siamo testardi e cocciuti ma in un senso buono: se ci mettiamo una cosa in testa ci crediamo e cerchiamo di portarla a termine, e il più delle volte ci riusciamo, con successo o meno. Questa è una cosa che riconosco ai calabresi e in parte anche a me. E poi anche il fatto di essere generosi: per noi a casa è scontato e normale, offrire un caffè al bar o se vieni a casa mia farti sentire a tuo agio. Finché non ce ne andiamo lo diamo per scontato, poi appena ci spostiamo dal perimetro della nostra regione capiamo subito che è diverso. Le differenze le vedevo già nel periodo milanese, ora, dall’altra parte del mondo, ancora di più. Non voglio scadere nei luoghi comuni, e anzi credo che molti ci riconoscano questa attitudine».
Ci sono, al contrario, degli stereotipi che ci inchiodano a luoghi comuni non più attuali o comunque folkloristici e frutto del pregiudizio?
«Ecco, venendo appunto ai luoghi comuni ci sono quelli legati alla parte d’Italia da cui provengo, quando me lo chiedono: criminalità, mafia e ‘ndrangheta sono ancora abbastanza forti nell’immaginario collettivo però sono spesso frutto di pregiudizio. È l’unica realtà che arriva e che si vuole vedere dal di fuori, diciamo un po’ per pigrizia e per la mancanza di voglia di guardare più a fondo. Si dà per scontato che quella sia la verità. È tutto basato su un’analisi molto superficiale. Poi però, quando capita di incontrare persone che in Calabria o comunque al sud ci sono state veramente, le uniche cose che senti sono i complimenti e il riconoscere che siamo gente accogliente e calorosa. E questa è una cosa che si riesce a percepire solo quando la si vive, superati i luoghi comuni e gli stereotipi. È lì che viene fuori la vera natura di quello che siamo».
Torna o tornerà in Calabria?
«In Calabria tornerò sempre. Non so se per sempre, un giorno, chi lo sa. Qui sto benissimo, mi sono da subito sentito a casa perché mi hanno fatto sentire a casa però io so qual è la mia casa. Casa è – come dicevo all’inizio – quel posto dove tu, facendo una passeggiata per strada, riconosci i volti, le vetrine dei negozi, per quanto siano cambiate, le strade che facevi da ragazzino quando uscivi da scuola, i posti dove stavi con gli amici. È questo che ancora mi manca della Calabria e che mi darà sempre un motivo per tornare. Oltre ovviamente alla mia famiglia e ai miei affetti. E al nostro cibo che rimane sempre tra i migliori al mondo».
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