DASÀ «Pino è morto perché voleva essere libero». A parlare è Teresa, la mamma di Pino Russo, ucciso a 21 anni dalla ‘ndrangheta per essersi innamorato della cognata del boss. Le parole, però, non sono sue, ma quelle di uno degli esecutori dell’omicidio di suo figlio, in seguito condannato a 20 anni di carcere. «Lui – ricorda la madre – aveva solo 17 anni quando uccise Pino. Qualche anno fa ci ha inviato una lettera chiedendoci perdono». Tra le righe, ricorda la madre, «ci ha detto che è morto perché lottava per la sua libertà». All’incontro, organizzato da Libera, hanno partecipato anche il fratello Matteo Luzza e il patrigno Orlando insieme agli studenti dell’I.C “Giuseppe D’Antona”. Presenti il referente regionale di Libera Giuseppe Borrello, il colonnello dei carabinieri Luca Toti, il sindaco di Dasà Raffaele Scaturchio, quello di Dinami Antonino Di Bella e il primo cittadino di Arena Antonino Schinella.
«Oggi siamo qui per celebrare non la morte, ma la vita di Pino». Di fronte agli studenti, Matteo Luzza ricorda suo fratello e i momenti più difficili vissuti dalla sua famiglia. «È dura parlare, è sempre come se fosse la prima volta. Quei momenti ci hanno ferito e ci feriscono ancora». L’importante, aggiunge, «è che il dolore si trasformi in impegno e memoria viva». Matteo ricorda le altre vittime innocenti del vibonese, da Maria Chindamo a Francesco Vangeli, così come Filippo Ceravolo. «Storie private che devono diventare memoria collettiva. Nei loro confronti abbiamo l’obbligo di ricordarli». La ‘ndrangheta, al contrario, «vuole silenzio e rassegnazione. Se continuiamo a parlarne, anche dopo 30 anni, vuol dire che non hanno vinto». La prima volta che Matteo ha raccontato la storia di Pino si trovava in un carcere a Parma. Da lì non ha più smesso, fino a diventare referente regionale della memoria per Libera. «Impegnarci ci dà la speranza. Non dobbiamo smettere di parlare, né indietreggiare nella lotta alla ‘ndrangheta».
Matteo si rivolge poi direttamente agli studenti della scuola “Giuseppe D’Antona”, ragazzi di 13-14 anni che stanno crescendo tra gli stessi vicoli in cui è vissuto Pino. «Quando lo hanno ucciso, lo hanno fatto in modo così cruento per far capire chi comanda». Queste persone, continua, «noi le conosciamo, le vediamo, abitiamo in piccoli contesti. Dobbiamo prendere le distanze dai loro atteggiamenti e starne alla larga». «Spesso – aggiunge ai microfoni del Corriere della Calabria – i ragazzi sono affascinati da questi “picciottelli”, dai mafiosetti che si atteggiano. Il nostro compito è fargli capire che sono atteggiamenti devastanti che gli rovineranno la vita». Per questo è importante «parlare con loro ed essere presenti sul territorio». Matteo ricorda anche la giovane età di uno degli esecutori dell’omicidio di suo fratello. «Aveva 17 anni. Dobbiamo interrogarci su come un ragazzo così giovane arrivi fino a quel punto».
Sulla scia del discorso di Matteo, anche il referente regionale di Libera Giuseppe Borrello richiama l’attenzione sull’impegno collettivo. «Per noi è doveroso essere qui insieme alle ragazze e ai ragazzi di Dasà, in quello che era il territorio di Pino. È importante – continua – condividere la sua memoria affinché i ragazzi acquisiscano consapevolezza dei tempi che viviamo, dove è necessario anche il loro impegno per dare la spallata decisiva a quella che è una presenza ingombrante in questi territori». Una storia, quella di Pino, tragica e dolorosa, ma emblematica di come «la ‘ndrangheta voglia avere il controllo anche sulle emozioni» aggiunge la referente provinciale Maria Joel Conocchiella. «Noi, invece, tramite il dolore collettivo ci emozioniamo, proviamo rabbia, che dobbiamo incanalare in una forza di impegno». Il dolore, incolmabile, è soprattutto quello di mamma Teresa. «Non si può colmare – dice – rimarrà sempre nelle nostre vite. È un dolore che ci ha cambiato». Anche lei rivolge un messaggio di speranza ai giovani: «Vi auguro di essere liberi». Come lo era Pino. (redazione@corrierecal.it)
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