REGGIO CALABRIA Un’organizzazione transnazionale dedita al riciclaggio, al traffico di droga e armi in tutto il mondo. Importazione, trasporto, detenzione e cessione a terzi di sostanza stupefacente. Una rete fittissima e un sistema collaudato che portava a un giro di risorse finanziarie difficile da quantificare. La rete criminale che dal Sud America importava tonnellate di cocaina, hashish e marijuana è stata smantellata dall’inchiesta “Eureka” che ha colpito in particolare le cosche Nirta-Strangio di San Luca e Morabito di Africo e che ha visto la collaborazione delle Procure di Reggio Calabria, Milano e Genova, e degli investigatori di Germania, Belgio, Portogallo. Tutto sotto il coordinamento della Direzione nazionale antimafia.
Un enorme lavoro investigativo che ha permesso non solo di circoscrivere il sistema utilizzato per far andare a buon fine le “spedizioni”, ma anche di individuare le modalità di riciclaggio all’estero dei proventi delle suddette attività criminali. «Si tratta di una indagine che ha interrotto operazioni finanziarie impressionanti», aveva detto nel maggio 2023 nel corso della conferenza stampa il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, che ha messo in rilievo il risultato raggiunto a seguito dell’individuazione dell’ingente quantità di sostanza stupefacente e i sequestri di denaro, società commerciali, beni mobili e immobili. Un quadro su cui la Dda reggina ha chiuso il cerchio per 119 persone.
Lo snodo principale dal quale lo stupefacente fuoriusciva era il porto di Gioia Tauro. Non è certamente la prima volta per il porto calabrese che risulta avere un ruolo di primissimo piano in quanto porta di ingresso in Europa per il quantitativo di stupefacente importato. Tra le maggiori accuse mosse dalla Dda reggina agli indagati nell’ambito dell’inchiesta “Eureka” c’è quella di far parte di stabili articolazioni che dal Sud America e dalla Calabria organizzavano traffici in tutto il mondo. Prevalentemente cocaina, hashish e marijuana, «approvvigionandosi in Sudamerica (in particolare Colombia, Brasile, Ecuador e Panama) trasportate in Italia, in particolare fino al Porto di Gioia Tauro, e in Europa, occultate in container imbarcati su navi provenienti dai vari porti del Sudamerica». Le operazioni andavano a buon fine grazie agli «accordi stretti con organizzazioni criminali operanti in Sudamerica per la spedizione e la commercializzazione in Italia di ingenti partite di cocaina, recandosi anche sul posto per mantenere contatti diretti con i fornitori». La fuoriuscita dello stupefacente dal porto di Gioia Tauro e dagli altri porti di arrivo veniva organizzato attraverso «”squadre” di operatori portuali corrotti». Gli investigatori hanno localizzato in Calabria, Puglia, Abruzzo, Lazio e Lombardia depositi di ingenti quantitativi di stupefacenti e di soldi, da dove partivano i corrieri per le consegne dello stupefacente e dove confluivano i proventi. In diversi casi, i profitti della commercializzazione dello stupefacente – hanno ricostruito gli investigatori – veniva traferito dall’Italia al Sudamerica e Belgio attraverso operazioni finanziarie gestite da organizzazioni criminali composte da cittadini cinesi, i proventi delle attività criminali venivano riciclate attraverso l’acquisizione di attività commerciali anche all’estero.
Per gli investigatori, inoltre, in particolare l’organizzazione capeggiata dal superboss Rocco Morabito, detto “Tamunga” avrebbe stretto «accordi con organizzazioni paramilitari e criminali operanti in Sudamerica per la spedizione e la commercializzazione in Italia di ingenti partite di cocaina, nonché in Pakistan per la fornitura di armi da guerra da consegnare alle suddette organizzazioni paramilitari».
Gli indagati utilizzavano sistematicamente “criptofonini” di ultima generazione, considerati unico mezzo sicuro per garantire la riservatezza delle loro comunicazioni. Dispositivi considerati «inattaccabili» di cui gli investigatori sono riusciti ad acquisire i testi grazie alla collaborazione internazionale e sulla base di formali Ordini Europei di Indagine, riuscendo così a ricostruire la fitta rete associativa transnazionale sviluppata tra Italia, Germania, Belgio, Portogallo. I dispositivi, come emerge dalle carte dell’inchiesta, si sono rivelati strumenti indispensabili per garantire le interlocuzioni rapide e riservate tra i sodali finalizzate alla definizione delle strategie e delle trattative funzionali ai traffici di droga. Il tipo di piattaforma più utilizzata è quella “SkyEcc”, ma sottolineano gli investigatori, «risultano in uso agli indagati ulteriori sistemi di cifratura». Al fine di evitare maggiormente il rischio di essere intercettati gli indagati non scrivevano i loro reali nomi, ma comunicavano tra loro chiamandosi esclusivamente tramite nickname. All’interno dei messaggi erano riportati anche conteggi di denaro investito e guadagnato nonché di panetti di stupefacenti, descrivendo nel dettaglio l’intera attività di narcotraffico. «In sostanza – scrivono gli investigatori – una vera e propria contabilità». (m.r.)
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