CATANZARO Le dichiarazioni rese ai pm dal collaboratore di giustizia, Giuseppe Giampà, hanno definito il profilo criminale di Domenico Rizza, tra i 20 fermati dalla Distrettuale antimafia di Catanzaro. Ricostruzioni che coincidono in larga parte con un altro importante collaboratore di giustizia lametino, Rosario Cappello. Anche le sue dichiarazioni risalgono al 2012 e, come Giampà, Cappello mette in luce la capacità di Rizza di acquistare e smerciare armi, anche da guerra. Per l’indagato il gip del Tribunale di Catanzaro ha disposto l’ordinanza di custodia in carcere, convalidando il fermo in carcere per il «cocreto pericolo di fuga».
«Erano una 9×21 e una calibro 9, quest’ultima è delle forze dell’ordine, è un’arma da guerra. Per le pistole mi aveva dato i soldi prima Vincenzo Bonaddio e l’avevo comprate, a Catanzaro da Domenico Rizza. A Catanzaro sopra… sopra Catanzaro ma non so come si chiama, non mi ricordo…». Cappello aveva riferito specificamente che le armi cedute a Giuseppe Giampà, ovvero una pistola 9×21 e una calibro 9, utilizzate per l’omicidio di Francesco Torcasio, le aveva acquistate proprio da Domenico Rizza. Nel corso della verbalizzazione, il collaboratore di giustizia riferisce, poi, di aver conosciuto Domenico Rizza nel corso dell’operazione denominata “San Valentino”. «L’ho conosciuto nel ’95, ‘95/’96 che ci hanno fatto un’operazione… fuori l’ho conosciuto, però poi dopo ci siamo conosciuti meglio…».
Nel corso della verbalizzazione, poi, il pentito parla anche degli affari trattati con Domenico Rizza. «Erba» riferendosi dunque alla marijuana, business che coinvolgeva nessun altro. «Nel momento in cui i Notarianni chiedevano i soldi ai commercianti, si presentavano a nome dei Giampà, qualora i commercianti o le imprese non pagavano il richiesto dai Notarianni, si vedevano recapitare atti intimidatori consistenti nel recapito di bottiglie incendiarie, cartucce e altro». «Non ho mai avuto rapporti illeciti con i Notarianni attinenti al passaggio di droga o di armi, mi sono recato spesso a casa di Notarianni, in particolare conosco Notarianni, il quale mi fu presentato dal “Professore” come suo nipote». A proposito del traffico di droga, Cappello ha spiegato che Rizza «veniva a casa mia da Catanzaro, si recava presso la mia abitazione per rifornirsi, poi provvedeva a rivenderla per proprio conto dopo avermela pagata… la maggior parte la davo a Rizza».
Dichiarazioni concordanti con quanto affermato anche dal figlio di Rosario Cappello, Saverio, anche lui collaboratore di giustizia, percorso intrapreso dal 2011 dopo l’arresto nell’ambito del procedimento scaturito dall’operazione “Infinito”, eseguita dalla Dda di Milano. Saverio Cappello, prima della sua scelta era un esponente di spicco della cosca Giampà, con il grado di “santista”, con mansione e ruolo specifici di “killer”, facente parte a pieno titolo del gruppo di fuoco dell’associazione, che dal 2004, ha compiuto una lunga serie di omicidi e attentati. Saverio Cappello, inoltre, si occupava di spaccio di sostanze stupefacenti per conto della cosca, il tutto sotto la direzione “privilegiata” di Giuseppe Giampà. Durante l’interrogatorio Saverio Cappello riferiva di conoscere un soggetto noto come Enrico Rizza, di Catanzaro, amico del padre, dal quale quest’ultimo «acquistava armi di ogni genere per conto della cosca di ‘ndrangheta Giampà di Lamezia Terme». Cappello, inoltre, nel corso delle sue dichiarazioni ha spiegato che il padre gli aveva mostrato le armi acquistate da Rizza, specificando che in alcune circostanze, era lo stesso Rizza a recapitarle e consegnarle, mentre, in altri casi, era Rosario Cappello a recarsi direttamente a Catanzaro per concludere la compravendita». Saverio Cappello, inoltre, aveva spiegato che, nel novembre del 2011, mentre era recluso nella Casa Circondariale di Catanzaro, «aveva avuto modo di notare Giuseppe Giampà mentre teneva a braccetto Domenico Rizza», occasione in cui lo stesso Giuseppe Giampà gli disse che con loro c’era anche l’amico del padre. «Ricordo anche che quando io ero detenuto al carcere di Siano e mi recavo al campo per parlare con Giuseppe Giampà, dal finestrone questo Enrico dalla finestra del primo piano, mi faceva segno di stare zitto perché sia io che Giuseppe potevamo essere intercettati e quindi ci faceva segno di non urlare». (g.curcio@corrierecal.it)
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