LAMEZIA TERME Una infinita ricerca della verità. Un percorso tortuoso e in salita, segnato dal dolore e dalla voglia di giustizia. Un’attesa che va avanti dal 6 maggio del 2016, il giorno in cui di Maria Chindamo si sono perse le tracce. Una ferita aperta nel cuore di un territorio, quello vibonese, piegato dalla ingombrante presenza della ‘ndrangheta, quella più feroce e brutale, che soffoca territori e sotterra la speranza. Una vita portata via lasciando nel dolore una famiglia intera. La stessa che, da quel giorno, chiede soltanto di sapere cosa sia realmente accaduto.
La ricerca della verità e della giustizia per la scomparsa di Maria Chindamo passa attraverso due momenti, finora, importantissimi. Il primo è l’inchiesta “Maestrale-Carthago” coordinata dalla Dda di Catanzaro all’epoca, è il settembre del 2023, guidata dal procuratore Nicola Gratteri che ha portato all’arresto di 84 persone. Tra queste, figura proprio il presunto killer di Maria Chindamo. Si tratta di Salvatore Ascone, classe 1966, detto “U Pinnularu”, non un nome qualunque, ma uno di quelli che pesa all’ombra della potente cosca Mancuso di Limbadi. Ascone è ritenuto concorrente nell’omicidio di Maria Chindamo perché «unitamente a suo figlio Rocco Ascone (minorenne all’epoca dei fatti), provvedeva a manomettere il sistema di videosorveglianza installato presso la sua proprietà, limitrofa a quella della Chindamo, in modo da impedire la registrazione delle immagini riprese dalla telecamera orientata sull’ingresso della proprietà della imprenditrice, fornendo così un contributo alla commissione dell’omicidio della donna, agevolando gli autori materiali dell’omicidio, che operavano sapendo di poter agire indisturbati e con la sicurezza di non essere ripresi e, dunque, successivamente individuati». La seconda è arrivata ieri: Ascone è stato rinviato a giudizio e dovrà comparire davanti ai giudici della Corte d’Assise di Catanzaro. Sarà, dunque, un processo fondamentale per ricostruire quanto accaduto e arrivare, si spera, a quella verità giudiziaria attesa da quasi 8 anni ormai.
In attesa del procedimento penale, gli inquirenti hanno raccolto i pezzi di un puzzle vasto e complesso, la cui ricostruzione è stata ostacolata in tanti modi. Nell’inchiesta, gli inquirenti della Dda hanno ricostruito la figura criminale di “U Pinnularu”, inquadrandola del delitto Chindamo, e l’interesse della cosca Mancuso di Limbadi nell’acquisizione terriera. È qui che entra in gioco Salvatore Ascone perché la porzione di territorio della località “Montalto” collocata al confine delle province di Reggio Calabria e Vibo Valentia è oggetto di una coesistenza di interessi da parte delle due cosche: Mancuso e Bellocco-Cacciola. «Esponenti della cosca Mancuso hanno affidato proprio a Salvatore Ascone il controllo criminale della località “Montalto” dove si occupa di acquisire i proventi estorsivi delle compravendite dei terreni e di gestire con metodologie mafiose quella porzione di territorio nonché i rapporti con i relativi proprietari». La mattina del 6 maggio 2016 l’autovettura di Maria Chindamo fu trovata in contrada “Carini” di località Montalto, abbandonata davanti al cancello d’ingresso della sua azienda agricola, ancora chiuso. L’auto è aperta, con il motore ancora acceso e l’impianto stereo a tutto volume. Ma della donna non c’è traccia solo una vistosa macchia di sangue sulla fiancata sinistra della carrozzeria dell’auto e sull’area circostante. Saranno rinvenuti nella vettura anche la borsa contenente circa 1.000 euro e gli effetti personali della vittima. Le indagini partono subito dopo la denuncia del fratello di Maria, Vincenzo Chindamo. L’area è presidiata dalle forze dell’ordine, impossibile non notare un immobile rurale riconducibile a Salvatore Ascone all’interno del quale era installato un sistema di videosorveglianza, visibile dall’esterno ed in posizione ideale. Quella telecamera poteva contenere i frame dell’agguato, i volti dei responsabili. Già poteva, perché quella telecamera non era in funzione. Un particolare, che sin da subito ha destato perplessità e suggerito agli investigatori un ulteriore approfondimento. La ricostruzione investigativa ascrive, dunque, la responsabilità a Rocco Ascone «di avere materialmente manomesso l’hard disk» mentre il padre, Salvatore Ascone, avrebbe ricoperto il ruolo di «regista della manomissione».
C’è un episodio che gli investigatori ritengono «un punto focale» nel caso Chindamo: il suicidio di Ferdinando Punturiero, marito di Maria Chindamo. L’uomo cade in depressione e tenta il suicidio (avvenuto nell’aprile del 2015), per poi togliersi la vita l’8 maggio 2015. Maria Chindamo «fu ritenuta dai familiari del marito responsabile del suicidio». L’analisi delle acquisizioni fondiarie ha evidenziato come la donna si fosse resa protagonista di un’acquisizione patrimoniale “totale”, a livello di terreni e di impresa, originariamente riconducibili alla famiglia Punturiero, sia per via del decesso del marito (da cui non era formalmente separata) sia per via della donazione di alcuni terreni effettuata dal suocero in favore dei nipoti.
Conosciuto da tutti come “U Pinnularu”, Salvatore Ascone, classe ’66, è a tutti gli effetti l’uomo di fiducia e di riferimento assoluto per il potente clan Mancuso di Limbadi nel territorio che comprende località Montalto, al confine delle province di Reggio Calabria e Vibo Valentia. La sua storia criminale è travagliata e lunga, tra arresti, accuse, scarcerazioni e una vita passata a gestire i suoi terreni e gli animali. Il suo nome, però, salta fuori già nell’operazione “Perseo” scattata all’alba del 26 luglio 2013 contro le cosche di ‘ndrangheta di Lamezia Terme attive nel narcotraffico, con l’esecuzione di 65 arresti. Di Salvatore Ascone non c’è traccia almeno fino 4 febbraio del 2014 quando le Squadre Mobili di Catanzaro e Vibo Valentia interrompono la sua latitanza a Limbadi, in un locale adibito a stalla di proprietà dei suoi familiari. Tra i primi a parlare di lui fu addirittura Giuseppe Scriva, quello che è considerato a tutti gli effetti uno dei primi collaboratori di giustizia della ‘ndrangheta. Saranno tanti i collaboratori di giustizia che, nel corso degli anni successivi, delineeranno sempre più chiaramente la figura di Salvatore Ascone.
Da Giuseppe Giampà ad Andrea Mantella ed Emanuele Mancuso. Sarà proprio lui a confermare ulteriormente il ruolo di Salvatore Ascone all’interno della famiglia Mancuso. Prima di intraprendere il percorso di collaborazione con la giustizia, infatti, il classe ’88 figlio di Pantaleone Mancuso, alias “L’ingegnere” nonché nipote di Mancuso Luigi, alias “Il Supremo” aveva con Ascone un rapporto molto stretto. «Lui è nato nella ‘ndrangheta ed ha sempre fatto parte della famiglia Mancuso» racconta ai magistrati «si vantava con me di averne fatto parte fin dalla nascita e di essere cresciuto insieme alla mia famiglia. Anzi, io mi stupisco di come non sia mai stato “toccato” dalle Forze dell’ordine». Ma soprattutto: «Rocco Ascone mi disse che, in 20 minuti, i maiali si erano mangiati il corpo della donna e che avevano poi triturato i resti della ossa con una fresa o con un trattore. Questo racconto mi fu fatto qualche tempo dopo la scomparsa della donna». Secondo il racconto del pentito Andrea Mantella, «Diego Mancuso parlò della Chindamo, che aveva una piantagione di Kiwi che non voleva vendere. La piantagione, disse Diego Mancuso, interessava ai suoi parenti, se non ricordo male al genero di Pantaleone detto “Vetrinetta”. Nel discutere dell’argomento, apostrofandola in malo modo, disse che lei era una “tosta” a non voler vendere, mentre il marito era un “babbo” nel senso di bonaccione». In sostanza, l’idea era quella di comprare ad un prezzo stracciato la proprietà della Chindamo per poi darla in gestione per la coltivazione a Salvatore Ascone». «Loro odiavano la Chindamo – continua Mantella – per via della sua ostinazione a non voler cedere il terreno e l’azienda, quando, una volta divenuto collaboratore, ho saputo della sua scomparsa, ho immediatamente ricollegato ed ho pensato: “ecco, se la sono fatta”. Ma questa è una mia supposizione». Decisamente più dure le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Antonio Cossidente. Nel corso dell’interrogatorio del 7 febbraio 2020, riferisce della distruzione del cadavere della donna: «la donna venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali». Nel solco delle precedenti confessioni, si aggiunge anche quella del collaboratore di giustizia Pasquale Alessandro Megna, nipote di Pantaleone Mancuso alias “Scarpurni”. Il pentito narra di un incontro avvenuto tra suo padre e il “Pinnularu”. Quest’ultimo avrebbe confessato quanto riferito anche dagli altri collaboratori di giustizia. «Io, pe quattru sordi, a chija eppi u m’ajuntu ‘ncoju”» (ndr. io per quattro soldi a quella me la sono dovuta caricare addosso). (g.curcio@corrierecal.it)
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