Cosenza, «Caserta sabato sera ha sconfitto il diluvio universale»

COSENZA Sono in viaggio, Bologna-Casa, leggo un libro, ritardo per un guasto alla linea, mi annoio, guardo il cellulare e mi appare quell’immagine, breve, che forse racconta chi è o forse no. La sua squadra, che non vinceva una partita da due mesi, ha da poco compiuto un’impresa, ha battuto il fortissimo Venezia. Lui ha trascorso l’intera partita a percorrere chilometri, su e giù davanti a quella panchina che gli stava sfuggendo anche se diceva il contrario. Sotto la pioggia battente, raccolto in un giubbotto lungo fino alle ginocchia, senza cappello, la barba sempre folta, bagnata, sudata, come quando era lui a dirigere l’orchestra in mezzo al campo. Da leader e non da cagnolino muto e spaventato di non essere capito, di subire l’ennesimo esonero. Pochi minuti prima, quando lo scugnizzo napoletano diventato condottiero bruzio aveva chiuso la contesa con i veneziani, lui era esploso in un impeto di gioia irrefrenabile, sorprendendo persino se stesso: abbracci, sorrisi, urla e la pesantezza dell’acqua agganciata per cento minuti diventata leggera, delicata. Aveva salutato tutti, stava per scendere nel chiuso della sua stanza per liberare l’ansia, quando ecco che quell’immagine breve gli si presenta davanti allo sguardo basso, come un paradiso che non sa se meritato. La squadra alle sue spalle, dice qualcosa che non ascolta a un addetto al campo, si guarda indietro ed è insicuro sul da farsi, si vede lontano un miglio che non sa cosa fare. Ha paura che una vittoria non basti a cancellare quei due mesi. Poi uno dei suoi ragazzi lo spinge in avanti, come a dirgli «mister, vai a prenderti gli applausi». Da solo. È la spinta che gli serviva. E se li prende gli applausi, la fiducia, alzando le braccia, urlando quel poco che gli resta da urlare, col suo giubbotto inzuppato, la barba folta e bagnata, gli occhi timidi, malinconici, gonfi di solitudine. Io non so che fine farà Fabio Caserta, se arriverà a fine anno oppure verrà mandato via. Finora la sua avventura a Cosenza non mi aveva detto niente, mi aveva quasi annoiato, più di questo viaggio fermo. Ma dopo l’altra sera qualcosa mi sembra cambiato. Nel suo sguardo, nel mio, in quell’anima svelata quel tanto che basta per ispirare un racconto che non serve a nessuno. Non so che farci, le fragilità e le storie invisibili degli uomini di calcio mi colpiscono di più e mi spingono a scrivere. Più di una sconfitta, di una formazione schierata male, del calciomercato, di una virilità rassicurante da mostrare ad ogni costo, più di una frase fuori posto o di un gol ai supplementari.
Come in queste ore si sta scrivendo dell’uomo Gigi Riva più che del calciatore, che se n’è andato senza farsi toccare il cuore malato per paura di guastarlo. Caserta sabato sera ha sconfitto il diluvio universale, la laguna in cui era stato abbandonato, ha allontanato i suoi fantasmi e non è riuscito a nasconderlo. Non ha voluto farlo, proprio allo stesso modo nostro che siamo nati soltanto per salvarci. Tutto questo a qualcuno apparirà esagerato, fuori tempo massimo, in fondo è solo pallone, è solo un allenatore, un privilegiato che pensa al suo destino. Sì, in fondo è solo pallone, un privilegio, è solo destino, una storia invisibile rinata per un ritardo sulla linea ferroviaria. Pallone, destino, una spinta vitale in avanti, guasto alla linea e al cuore, noia e sopravvivenza. (f.veltri@corrierecal.it)

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