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il verdetto

«Nessuna prova del patto corruttivo», così la Cassazione smonta le accuse contro Sgromo

Secondo l’accusa l’imprenditore avrebbe corrotto un finanziere. Per i giudici, però, il Tribunale avrebbe dovuto spiegare le ragioni

Pubblicato il: 26/01/2024 – 15:34
di Giorgio Curcio
«Nessuna prova del patto corruttivo», così la Cassazione smonta le accuse contro Sgromo

CATANZAZRO Sono state depositate le motivazioni della sentenza della Cassazione (VI sezione) con la quale, lo scorso 3 ottobre 2023, ha annullato l’ordinanza del Tribunale di Catanzaro che disponeva gli arresti domiciliari nei confronti di Sebastiano Sgromo. Il noto imprenditore di Curinga, infatti, era ritenuto gravemente indiziato del reato di corruzione in atti giudiziari.

La presunta corruzione

Al centro della vicenda c’è la consulenza del tenente colonnello della Guardia di Finanza con l’incarico di Comandante del gruppo tutela entrate presso il Nucleo di polizia economico finanziaria di Catanzaro, Franco Albano Formoso, relativa al sequestro preventivo disposto il 26 luglio del 2016, in relazione alla somma di cui avrebbe potuto essere chiesta la restituzione a seguito della definizione anticipata delle liti pendenti con la Agenzia delle Entrate, nonché di aver fornito agli imprenditori Eugenio e Sebastiano Sgromo «consigli tecnici, relativi alla possibilità di ottenere il dissequestro della intera somma». Secondo l’accusa, inoltre, il finanziere avrebbe anche sollecitato, attraverso un messaggio WhatsApp, il Sostituto Procuratore della Procura di Lamezia Terme, titolare del procedimento.

La linea difensiva

Tesi accusatorie respinte però dalla difesa di Sebastiano Sgromo, il prof. Enrico Grosso e dell’avvocato Giuseppe Fonte. Secondo i legali, infatti, il finanziere «si sarebbe limitato a fornire un consiglio tecnico volto a consentire ai fratelli Sgromo di chiedere al Pubblico Ministero – che procedeva per un reato fiscale nei loro confronti – il dissequestro dell’intera somma oggetto di sequestro e, in ragione di detto consiglio, vi sarebbe stata la sostituzione della originaria istanza di dissequestro; un dissequestro al quale tuttavia gli Sgromo avevano diritto». Secondo i difensori, inoltre, la condotta del finanziere «non sarebbe sintomatica di un asservimento della funzione e della violazione del principio di imparzialità e il militare non avrebbe avuto ragioni per rifiutare la richiesta di incontro da parte degli Sgromo, i quali, peraltro, avevano diritto a ricevere chiarimenti dal titolare dell’ufficio che aveva istruito la pratica». Per quanto riguarda l’appartamento, inoltre, i difensori avevano segnalato una prima conversazione tra Sgromo e il finanziere già il 14 maggio 2017, quando l’imprenditore «non aveva ancora presentato alcuna domanda di rottamazione delle cartelle, che solo successivamente aveva portato alla possibilità di effettuare pagamenti e chiedere la restituzione».

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Nessuna prova del patto corruttivo

Tesi accolte dalla Corte di Cassazione, secondo la quale il primo contatto telefonico in atti tra Sebastiano Sgromo e l’ufficiale della Guardia di Finanza, rivelatore della disponibilità da parte di quest’ultimo dell’immobile che Sgromo aveva messo a disposizione, risale effettivamente al 14 maggio del 2017, quando cioè nessuna richiesta di restituzione delle somme sequestrate era stata ancora presentata. La prima richiesta di restituzione fu presentata, invece, il 25 ottobre 2017, cioè dopo più di cinque mesi dalla conversazione intercettata dagli inquirenti. Secondo i giudici, inoltre, il finanziere continuò a usufruire di quell’immobile almeno sino al settembre del 2018, cioè almeno per altri otto mesi dopo la restituzione delle somme disposta il 25 gennaio 2018. Secondo il Tribunale di Catanzaro, poi, vi sarebbero gravi indizi del reato di corruzione in atti giudiziari perché il finanziere si sarebbe messo a disposizione di Sebastiano Sgromo. La prova, secondo l’accusa, si fonda sull’utilizzo dell’immobile in cambio dell’interesse “inquinante” e minuzioso della vicenda legata al dissequestro delle somme di Sgromo. Per i giudici, però, la prova del patto corruttivo e del nesso tra le prestazioni «è stata fatta discendere senza spiegare perché, nel caso di specie, l’utilità conseguita da Franco Albano Formoso e oggetto del patto sia collegata all’esercizio della funzione del pubblico ufficiale e alla presa in carico dell’interesse del privato corruttore» e non è stato chiarito perché la presunta utilità conseguita dal finanziere «sarebbe causale e giustificativa dell’asservimento della funzione, tenuto conto che il pubblico agente aveva la disponibilità di quell’appartamento anche mesi prima del suo interessamento per la vicenda». In sostanza, scrivono i giudici, «il Tribunale avrebbe dovuto spiegare perché quella utilità ottenuta mesi prima costituisse il prezzo e il corrispettivo dell’asservimento della funzione e la prova della finalizzazione della stessa agli interessi del privato». (g.curcio@corrierecal.it)

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