La bellezza non è un editto. È un atto di rispetto. Non devi per forza trovarla là dove è scontato. Puoi scandirla anche al buio, nel sacerdozio del silenzio, attraverso una finestra vedova. Perché il rumore delle cose segna un confine. Un valico. Uno sbadiglio. Quello di un tempo distratto. Il nostro. Intenti a vezzeggiare con il presente per assecondarlo alla nostra impazienza, ci lasciamo attraversare. Senza assaporare il silenzio. Quello che sta dentro di noi, e quello che vige poco oltre. In quel regno, che vorremmo inanimato, delle cose. Che, anche da un angolo malfermo, invece fanno rumore. Il loro inconfondibile e inconfutabile rumore. Che è un’enclave di segni, spezzature, macchie. Una disarmonia apparente che, invece, si fa racconto ed epopea. Di giorni felici di maggio che brucia d’estate; di ottobre che si fa avamposto d’autunno e di un raccolto che sfugge; di lunghe notti di merla e di gennaio, gelido e silente che accomuna la gente nei fiordi dei propri cantucci. Lei adesso ingabbia soltanto solitudine. Tra una porta che cigola e una trave che mimetizza se stessa tra polvere e tormenti, lei però resiste. Una finestra inferma che ha custodito attimi, respiri, amori. Mentre là fuori la neve si adagia come zucchero a velo su faggi impauriti, e affievolisce la fatica dell’acqua, impantana i passi inermi di un vecchio. La finestra adesso tace. Docile e indifesa. Nella casa degli avi. Nei loro destini infranti. Tace. Perché è una cosa. E le cose non parlano. Fanno rumore. Per farci sentire più forte il tempo che ci facciamo sfuggire.
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