Giovanni Ventra la sera del 27 dicembre 1972 sta per uscire dalla sede del Partito comunista di Cittanova, il suo paese. Come ogni giorno, dopo il lavoro, è passato a salutare i compagni della sezione che affaccia su piazza Marvasi, prima di tornare a casa dalla moglie Carmela e dai sette figli che lo aspettano per la cena. Ha 58 anni Giovanni, chi lo conosce lo descrive come una persona solare, aperta, curiosa, disponibile con tutti. Oltre a fare l’imprenditore agricolo, da anni si occupa di politica. Pur non avendo potuto concludere gli studi, la sua sete di conoscenza lo ha fatto appassionare alla lettura, all’impegno sociale e alle cause dei più deboli. Da anni è uno dei consiglieri comunali più apprezzati e votati di una comunità che viene da momenti durissimi, di faide tra famiglie di ‘ndrangheta, da una parte i Facchineri-Varone-Marvaso-Monteleone, dall’altra i Raso-Albanese, Gullace-De Raco. Uno spargimento di sangue iniziato nel 1964 con l’omicidio di Domenico Geraci, legato ai Facchineri, seguito dall’agguato in cui aveva perso la vita Antonio Albanese. Nel 1970, nel pieno dei moti di Reggio Calabria, era morto Celestino Gullaci. Da lì in avanti i delitti di ‘ndrangheta erano andati avanti a ritmo incessante, coinvolgendo anche i bambini e tenendo sempre sull’allerta l’intero territorio di Cittanova.
La famiglia Ventra, pur vivendo in quella stessa realtà, sembra appartenere a un’altra dimensione. Giovanni e Carmela vogliono il meglio per i loro figli. Li fanno studiare, si sacrificano per loro, non vogliono che vengano risucchiati in quel vortice oscuro di sangue e morte.
Quella sera a Cittanova fa freddo e tutto sembra tranquillo. Sarà l’aria del Natale appena passato o l’anno nuovo che si avvicina, ma non si spara da tempo. Giovanni Ventra, dopo aver chiacchierato per qualche minuto con i compagni di partito, saluti tutti a va via. Esce dal portone che affaccia sulla piazza del paese, percorre pochi metri e proprio in quel momento gli passa accanto un uomo. È Giuseppe Facchineri, appartenente all’omonima cosca, è uscito dal carcere da appena quattro giorni. Ha giusto il tempo di guardarlo distrattamente in faccia che da due automobili, una “124” e una “123” con targhe straniere, partono decine di colpi di fucile. Sono caricati a pallettoni. Ad essere colpiti sono proprio loro due, Giuseppe Facchineri e Giovanni Ventra. Quest’ultimo, cade a terra, perde sangue dalla gamba, una ferita profonda che fa male, ma nessuno ha il coraggio di scendere in strada per aiutarlo. Le due macchine, terminato il loro compito, fuggono via. Pochi minuti dopo arrivano le ambulanze. Vengono portati entrambi in ospedale, ma le condizioni del consigliere comunale appaiono subito disperate, ha perso troppo sangue. Muore pochi minuti dopo. Facchineri, invece, se la cava con una prognosi riservata e un intervento chirurgico che va a buon fine. Era lui il bersaglio dei killer. L’unica colpa, se è una colpa, di Giovanni Ventra è stata quella di trovarsi nel luogo sbagliato nel momento dell’agguato mortale.
Le indagini degli inquirenti vanno subito in un’unica direzione: si è trattato dell’ennesimo episodio che riguarda la faida tra cosche di ‘ndrangheta. Stavolta a perdere la vita non è stato uno di loro, ma un innocente.
Tre anni dopo, esattamente nel marzo del 1975, il 32enne Giovanni Raso viene ucciso misteriosamente nella sua cella, in piena notte. Otto colpi di pistola, cinque dei quali alle spalle, che non lasciano scampo all’esponente del clan opposto ai Facchineri. Si trovava in carcere in attesa di giudizio per tentato omicidio e duplice omicidio. Raso era accusato di aver ucciso, nel 1973, Giovanni Scarfò e la sera del 27 dicembre 1972, Giovanni Ventra mentre stava cercando di sbarazzarsi di Giuseppe Facchineri. Era stato arrestato nel 1974 a Genova, durante la sua luna di miele. Dopo la sua morte, nonostante le numerose indagini effettuate, non si è mai arrivati a individuare altri presunti colpevoli di quell’imboscata durante le festività natalizie. A distanza di oltre 50 anni, la famiglia Ventra chiede ancora giustizia e lo fa anche e soprattutto attraverso la voce di Silvia, figlia di Giovanni e fondatrice dell’associazione “Piana Libera” che unisce i parenti delle vittime di ‘ndrangheta. Silvia, quella sera terribile, aveva appena 16 anni e stava aspettando a casa suo padre per cenare insieme. (f.veltri@corrierecal.it)
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