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Quando Seminara era il centro del sapere

Barlaam (vescovo di Gerace nominato da papa Clemente VI) fu maestro di greco e latino di Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. Leonzio Pilato, discepolo di Barlaam, tradusse Omero e fu uno dei …

Pubblicato il: 29/01/2024 – 9:49
di Bruno Gemelli
Quando Seminara era il centro del sapere

Barlaam (vescovo di Gerace nominato da papa Clemente VI) fu maestro di greco e latino di Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. Leonzio Pilato, discepolo di Barlaam, tradusse Omero e fu uno dei primi promotori dello studio della lingua greca nell’Europa occidentale. Entrambi erano di Seminara. Leonzio Pilato chiuse, in qualche modo, la fine del Medioevo, tanto da far dire a Benedetto Croce che «Barlaam calabro e Leonzio Pilato rappresentano l’ultima trasfusione della cultura normanno-sveva e meridionale nell’incipiente umanesimo».
Dopo Antonio Piromalli e Pasquino Crupi, che sono stati i maggiori esperti di letteratura calabrese, un altro intellettuale calabrese si è occupato, oltre tre lustri fa, di Leonzio Pilato. È stato Santo Gioffrè, medico, scrittore, politico. Egli licenziò il saggio “Leonzio Pilato” (Rubbettino, 2007 pag. 154). Leonzio Pilato, come detto, è stato colui il quale tradusse – per primo, ovviamente – dal greco al latino l’Iliade e l’Odissea. Siamo, dunque, nel Pantheon letterario del XIV secolo. L’interesse di Piromalli e Crupi verso questo singolare personaggio, greco nell’anima e nel pensiero, come il suo maestro Barlaam, è spiegabile dalla circostanza che entrambi siano stati gli autori di specialissime storie della letteratura calabrese. L’approccio di Santo Gioffrè è, invece, intimistico.
In questo crogiolo si narra come il monachesimo calabrese abbia irradiato semi che si raccordarono con i germogli pensati e diffusi da Gioacchino da Fiore e Nilo da Rossano. Gioffrè nelle prime pagine ricorda il luogo della genesi, “Seminara, la città triste”: «Nacqui, greco, in una città triste, triste come sanno essere quelle che credono in un futuro che non esiste. Pareva appesa nell’aria e, pur piena di gente, (la numerazione fiscale del 1310 aveva censito ben 5.347 abitanti) di commerci, di chiese, monasteri, guarnigioni militari, marchingegni per il ricavo dell’olio e della seta. Seminara, nel Giustiziorato di Calabria, non aveva un’anima. Tutto era indefinito e vago».
Per certi aspetti, come oggi, verrebbe da commentare. Ed ancora: «Fui espulso dal ventre di mia madre il giorno gonfio di pioggia, era una domenica di febbraio, il fiume diventò furioso e violento e tutto, lungo i suoi argini portò via». Ancora come oggi, le fiumare terribili, aride e tracimanti, una sinonimia antropomorfica. Nei diciannove e agili capitoli che compongono il libro Gioffrè rivive la vita romanzata di chi conosce una pulizia etnica ante litteram, di chi si nutre degli elementi portanti della cultura classica, di chi si avventura nella scoperta di Creta dopo una sosta a Napoli. Dal contatto con l’ambasciatore Nicola Sigèro che ne svela la stoffa culturale al riparo padovano dove traduce in latino “Le Pandette” di Giustiniano, la “Fisica” di Aristotele, “L’Ecuba” di Euripide. Poi l’epilogo che, come ricordò Crupi nella Storia tascabile della letteratura calabrese, «morendo, nel 1365, al ritorno da un viaggio Grecia, si risparmiò il dolore di assistere allo sprofondamento dei monasteri basiliani e della cultura di cui si facevano organizzatori».

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