REGGIO CALABRIA Una associazione «da considerarsi “ormai avviata”», in cui i «ruoli erano ben delineati e chiari», dotata di «stabili canali di rifornimento e sicura e variegata clientela»: «alcuni dei clienti giungevano sin da Messina e Reggio Calabria». È il quadro delineato dal gup di Reggio Calabria Irene Giani nelle oltre mille pagine di motivazioni della sentenza del processo in abbreviato scaturito dall’operazione della Dda reggina “New Generation – Riscatto II”.
L’operazione era scattata nel luglio 2022 su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri e dell’aggiunto Giuseppe Lombardo, e aveva portato all’arresto di 29 persone accusate, a vario titolo, di associazione per delinquere di stampo mafioso, produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanza stupefacente, detenzione di armi e munizioni, danneggiamento, estorsione pluriaggravata, traffico e spaccio di banconote false. «Punto di riferimento di tutti gli altri sodali», i giovanissimi Riccardo Francesco Cordì e Luca Scaramuzzino, rispettivamente classe ’96 e ’93, e condannati entrambi a 20 anni di reclusione (così come Antonio Aversa e Salvatore Congiusta), sono coloro che, secondo gli inquirenti si sono «contraddistinti per autorevolezza e operatività» all’interno del gruppo.
Lo scopo del clan, secondo quanto emerso dalle indagini, era duplice: controllare, attraverso il giovane gruppo, le attività svolte sul proprio territorio e, al contempo, «formare giovani leve assoggettate all’autorevolezza criminale dei Cordì da cui poter attingere in futuro per rafforzare l’organigramma specifico della consorteria» tanto che «anche all’esterno il gruppo di ragazzi viene considerato una propaggine della cosca Cordì». «Detta congrega – scrive il giudice – si ritiene diretta espressione della cosca Cordì, da cui ha mutuato i principi tipici della ‘ndrangheta, primo tra tutti il rispetto delle regole gerarchiche». Tra questi spicca la figura di Riccardo Francesco Cordì, «punto di riferimento di questi giovani e componente della cosca Cordì, balzato agli onori della cronaca per essere stato uno dei primi destinatari di un provvedimento di allontanamento – quando era minorenne – dalla famiglia e dal territorio di origine, adottato dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria per il recupero dello stesso». Al raggiungimento della maggiore età, nell’anno 2014, Riccardo Francesco Cordì fece ritorno a Locri, «iniziando a commettere – unitamente agli altri indagati – una serie incessante di reati, connotati da una sempre crescente gravità»: pestaggi, danneggiamenti, furti.
Per il giudice «i colloqui captati hanno rivelato ed evidenziato (in maniera estremamente attendibile in quanto proveniente dall’interno del sodalizio medesimo e, come tale, senza problemi peculiari di riscontro) l’intensità del legame esistente tra i vari indagati e l’unione dei medesimi per il raggiungimento di uno scopo comune duraturo».
I componenti del gruppo, rimarca il gup reggino, «godono di massima fiducia reciproca e di consolidati rapporti di amicizia: appaiono evidentemente legati tra loro da un vincolo associativo. Non v’è dubbio che gli imputati abbiano intessuto e intessano rapporti criminali e personali da tempo, sempre connessi allo specifico settore del traffico di sostanza stupefacente». «Le indagini – si legge nelle motivazioni – hanno ampiamente dimostrato l’esistenza, di fatto, di una struttura dotata di un’organizzazione di tipo permanente, diretta all’attuazione di un programma delittuoso nel settore del traffico di droga, in cui si sono innestati i contributi dei singoli partecipi, che si ritiene abbiano agito nella consapevolezza della finalizzazione della condotta propria e altrui alla realizzazione del programma comune». Dalle indagini è emerso come tra i componenti del gruppo ci fosse un legame talmente stretto da considerare «il principio del mutuo soccorso tra gli associati assolutamente doveroso». «Che gli imputati siano costituiti in associazione – scrive ancora il giudice – lo si evince, in primo luogo, dal fatto che sono loro stessi, in diverse circostanze, a parlare di sé come associati e a dare un nome alla loro associazione». “Gang Fragapullo”, dal nome del luogo di occultamento della sostanza stupefacente; “La banda della Mito rossa”, con evidente riferimento alla ben più famigerata “banda della Uno bianca”, «Perché noi siamo uomini di Gomorra!! I gomorroidi, i gomorroidi!!», dicevano, in relazione alla nota serie televisiva “Gomorra”. L’attività tecnica – scrive il giudice – ha messo in evidenza che gli associati stessi si attribuivano soprannomi spesso tratti dalle serie tv incentrate su associazioni a delinquere.
«La serialità stessa dei reati contestati, la divisione dei compiti tra gli associati e la perfetta coordinazione tra gli stessi nel commettere i reati fine, secondo schemi di realizzazione tipici, rodati e ripetuti nel tempo, che lasciano dubbi in ordine all’esistenza di un’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti», scrive ancora il giudice, che sottolinea come all’interno dell’associazione i ruoli fossero «ben delineati e chiari»: «era possibile distinguere agevolmente i soggetti che avevano il compito di dirigere, coloro che avevano il compito di procurare sostanza stupefacente, quelli che avevano il compito di custodirla, quelli che avevano il compito di tagliarla e prepararla per la vendita e coloro, infine, che avevano il compito di cederla al dettaglio. All’interno dell’associazione, poi, potevano distinguersi ulteriori sottogruppi/cellule organizzative dedicate allo spaccio al minuto». E ad emergere, come hanno dimostrato le indagini, sono le figure di Riccardo Francesco Cordì e Luca Scaramuzzino, considerati «effettivi promotori e dirigenti dell’associazione; sono loro – secondo il giudice – ad organizzare gli associati e a costituire il punto di incontro tra i fornitori di sostanza stupefacente, e gli associati incaricati di custodirla e di cederla a terzi. Sono loro, in definitiva, a tenere i contatti tra tutti i membri dell’associazione». (m.ripolo@corrierecal.it)
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