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L’Intervista

«La politica non ascolta noi teatranti, ecco perché il mio partito è quello di De André»

Paola Borboni, i colleghi e amici di una vita, le risate con Totonno Chiappetta, i talenti della nuova scena calabrese. E un retroscena su “Ricomincio da tre”. Parla l’attore Giovanni Turco

Pubblicato il: 04/02/2024 – 16:01
di Benedetta Caira
«La politica non ascolta noi teatranti, ecco perché il mio partito è quello di De André»

COSENZA Bisogna essere ostinati per riuscire a trovare Giovanni Turco. Al cellulare non risponde, «Non lo so usare». I messaggi non li legge, «l’ho detto che ho un pessimo rapporto con il telefono». Non si fida o forse si annoia: «E poi un’intervista? E di cosa dovremmo parlare? Sono il primo attore pensionato della Sila ed effettivamente questo è un record. Ho settant’anni, me ne sto qui a Celico dove sono nato e faccio il nonno, sono anni che non metto piede in un teatro». Premette che non ha molto da dire ma poi la memoria diventa arborescente, i ricordi germogliano disordinatamente. Eccole, le tavole del teatro, l’occhio di bue si accende su di lui giovane, talentuoso, scapigliato, spigoloso. Una casa a Roma con le sue cose e poi una vita raminga, impegnato in lunghissime tournée in giro per l’Italia con le compagnie che portavano in scena gli spettacoli di Giuseppe Patroni Griffi e Franco Zeffirelli. Erano gli anni ’80, anni in cui i foyer dei teatri erano affollati da pellicce, papillon e abiti in lamé.
«Ho vissuto quella stagione importante. Sei, sette mesi in giro da una città all’altra, da un teatro all’altro. Sono rimasto al fianco di Paola Borboni e ho lavorato con lei fino al 1995, anno in cui è morta. Aveva 95 anni. È stata un’attrice straordinaria». E i complimenti di Giovanni Turco – ora caustico e scapigliato, ora dolente e malinconico – sono davvero per pochi. Misurati, essenziali.

L’attore Giovanni Turco, 70 anni

Lei era un giovane cresciuto nella Sila cosentina, come si è ritrovato su quei palcoscenici?
«Io volevo fare lo studente di medicina. Ero in fila per pagare le tasse universitarie e mi sono chiesto: Giova’ che vuoi fare? Io voglio fare l’attore mi sono risposto».
Dopo la scuola di teatro sono arrivati subito gli ingaggi. Ha recitato in “Così è se vi pare” di Zeffirelli e poi al fianco di attori come Paolo Stoppa. Faceva parte di compagnie teatrali importanti. 
Le piaceva far parte del mondo dello spettacolo?
«Ma no. Io sono sempre stato un attore per conto mio. Mi rendevo conto, attraverso questi grandi personaggi che frequentavo, che le folle appresso gli rendevano la vita impossibile. Non c’è premio che possa ripagare questo sconforto».
Nonostante questa ritrosia però ha lavorato molto in teatro ma anche nel cinema. Nel 2010 ha recitato nel film La nostra vita, diretto da Daniele Lucchetti, presentato al festival di Cannes dove Elio Germano ha ricevuto il premio per la migliore interpretazione maschile.
«È stata un’esperienza molto importante, indubbiamente. Ma io non sono mai stato nel giro. Se qualcuno è venuto a cercarmi sono andato, altrimenti nulla. Non nego di avere, nonostante tutto, una componente narcisistica: se non ti consideri il migliore del mondo sul palcoscenico non ci vai».
E quella sensazione non le interessa più?
«Ho scelto consapevolmente di smettere. Non voglio più andare da nessuna parte».

Giovanni Turco sul set

Togliamoci un sassolino dalla scarpa…
«Massimo Troisi mi ha rubato l’idea per il suo “Ricomincio da tre”».
In che senso?
«Ero a Napoli, qui ho conosciuto Anna Pavignano, scrittrice e sceneggiatrice che poi diventerà la compagna di Troisi. Le feci leggere una mia sceneggiatura, il titolo era “Giuseppe”. Dopo qualche anno uscì Ricomincio da tre, la cui sceneggiatura era scritta a quattro mani da Pavignano e Troisi. Mi è sembrato di ritrovarci molte cose simili a quelle del “mio” Giuseppe. Chissà, magari l’ho ispirato io quel film. Se anche fosse, non me ne sono curato. Io andavo solo appresso alla mia fantasia».
Avviciniamoci alla Calabria. Cosenza ha una storia felice di fermento teatrale che lei ha vissuto. Cosa ricorda con piacere?
«È stata una stagione felice per alcuni. Si faceva – e si fa – un gran parlare di questo teatro cosiddetto “di ricerca”. Ma il teatro di ricerca non esiste. Il teatro è solo ricerca, altrimenti cos’è? Un museo? Poi magari se sei Carmelo Bene qualcosa di innovativo e di buono puoi farla. Ma “ricerca” è la parola dietro la quale si maschera spesso la mancanza di conoscenza del teatro».
Adesso provo a farla sorridere. Totonno Chiappetta?
«Un compagno di vita. Ci siamo divertiti tantissimo. Siamo stati insieme due “picari”. Il picaro è una figura letteraria che ci dipingeva perfettamente: popolani, sfrontati, mascalzoni… ma non cattivi. Tra i tanti ricordi meravigliosi mi viene in mente questa scena: io e Totonno stavamo facendo le prove dello spettacolo “Un caso di morte apparente”, regia di Vincenzo Ziccarelli, al teatro Rendano. Io entrai in scena completamente ubriaco. Inciampavo, dimenticavo le battute. A un certo punto Totonno, che faceva il morto, si alza e mi suggerisce quello che dovevo dire. Ridevamo a crepapelle, con la conseguente disperazione del regista».

Turco con Totonno Chiappetta, icona del teatro cosentino, venuto a mancare 9 anni fa

Suggerisce un altro nome: Vincenzo Ziccarelli. Scrittore, drammaturgo, protagonista della storia del teatro calabrese ma anche Presidente della Provincia di Cosenza, dal 1975 al 1980.
«Uomo di cultura vastissima. Eloquio sproporzionato. Capacità di scrittura formidabile. È stato un grande scrittore di teatro, era acuto, guardava oltre. Uomo integerrimo, ma il suo ruolo nella politica levava certamente tempo a questo suo talento teatrale, lo distraeva. Vincenzo aveva una muta di cani che gli mordevano le gambe. Ovvero tutti quelli che chiedevano qualcosa, come succede sempre in politica».
Lei è stato uno straordinario Tiresia in un Antigone diretto da Massimo Costabile per il Centro Rat nel 2004. Che ricordo ha del teatro dell’Acquario e della compagnia Centro Rat?
«Da quelle tavole sono passati grandissimi artisti, ha dato l’opportunità di conoscere spettacoli e compagnie teatrali di grande levatura. Purtroppo non c’è più ed è una grave perdita, stimo Dora Ricca e stimavo Antonello Antonante, anche se lui mi ha sempre scartato. Ho un bellissimo ricordo di Nello, Renato e Massimo Costabile, di Francesco Lorenzo Gigliotti».

Avviciniamoci al presente. Ha lavorato in tantissimi progetti teatrali e produzioni cinematografiche, troppi per citarli tutti. Tra i più recenti c’è, nel 2015, il noir “Scale model” scritto e diretto da Fabrizio Nucci e Nicola Rovito. È apparso in un corto diretto da Andrea Belcastro dal titolo “Recherche” e in un videoclip di Giovanni B. Algieri. Lei sfugge, eppure continua ad essere richiesto. Dal suo eremo silano che idea è riuscito a farsi del teatro calabrese, oggi?
«Ci sono molti “giovani”, ma in realtà non sono più giovani, che sicuramente si fanno apprezzare. Penso alla compagnia Scena Verticale o a Max Mazzotta, ottima testa pensante e ottimo regista, penso ad attori come Lindo Nudo, Ciccio Aiello, Ernesto Orrico ma ce ne sono tanti altri che in questo momento mi sfuggono. E poi attrici bravissime: Stefania De Cola, Alessandra Chiarello, Laura Marchianò. Tutte persone che mi hanno arricchito ogni volta che ho avuto la possibilità di lavorare con loro. E poi Giancarlo Cauteruccio: un genio della luce, uno che la ricerca l’ha fatta a modo suo, un regista con sprazzi di genialità».
Uno spettacolo a cui è particolarmente legato?
«La Giudaica di Laino Borgo, la dirigo da trent’anni. Da dieci generazioni le famiglie tramandano questo testo aulico del ‘600 che racconta l’ultimo giorno di vita di Gesù. È un fatto teatrale straordinario che dovrebbe diventare patrimonio immateriale dell’umanità perché va in scena da trecento anni. Ma la politica non ascolta».
Ha fiducia nella politica?
«Non sono un veterocomunista, io sono iscritto al partito di De Andrè. Io sono con gli ultimi, con i reietti. E da lì che nascono i fiori».
Quando tornerà a teatro?
«Non ci entro da tanto e né ci entrerò. Non posso farlo perché mi metterei a piangere. Quella è casa mia, ogni teatro è casa mia».
Abbiamo finito.
«Comunque è stata una chiacchierata piacevole. Sono felice che qualcuno si ricordi che sono stato vivo pure io».
Magari uno di questi giorni la richiamo, per dirle che l’intervista è online.
«Ammesso che ti risponda».

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