«(…) con questi telefoni non si può parlare a voce (…) questi sono telefoni proprio nati calabresi, perché solo loro ce l’hanno, tutti i calabresi della ‘ndrangheta, tutti loro ce li hanno questi telefoni…». A parlare in aula davanti ai giudici del Tribunale di Catania è il collaboratore di giustizia Michele Vinciguerra, coinvolto nell’inchiesta della Dda Etnea “Kynara” scattata a dicembre del 2022, coordinata dalla Dda di Catania, con l’arresto di 30 persone (23 in carcere e 7 ai domiciliari) in grado di far luce sugli affari del narcotraffico sull’asse Calabria-Sicilia.
Di notevole importanza le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, noto a Catania come “Curdunaro”, rese in aula nel corso dell’udienza al Tribunale di Catania, interrogato dalla pm, Barbara Tiziana Laudani. «Perché qua non ce n’è, noi in Sicilia non ne abbiamo, non ce n’erano di questi telefoni con questo marchingegno». Telefonini, dunque, particolari quelli dei trafficanti calabresi di cui, però, Vinciguerra non era in possesso. «Ce l’avevano Bassetta e Ravasco . Io non ne sapevo usare per dirle la verità». A proposito dei quantitativi di droga in transito dalla Calabria alla Sicilia, poi, Vinciguerra ha risposto ancora in aula: «(…) se parliamo noi di stima di chili, non si può stabilire mai. Le spiego perché: in una settimana sempre quaranta, cinquanta chili poco poco c’erano, perché andavamo in tutta la Sicilia, non andava solo a Siracusa o a Messina, andava a tutta la Sicilia». Una volta arrivata oltre lo Stretto, la droga veniva suddivisa. «Quando arrivava la droga» ha raccontato Vinciguerra «io mi mettevo d’accordo con Zoccoli. “A me ne serve due, tre pacchetti”, che sarebbero tre chili. Mio nipote Giacomo cosa faceva? Parlava con il signor Zoccoli che gli diceva “vai a Trapani, quattro chili. Vai a Palermo, quello che porta l’autobus dell’Ast”, che poi l’hanno arrestato a Palermo».
A proposito del pagamento, ha spiegato: «(…) tutta la droga veniva a casa di Ravasco. E perché? Perché era il suo punto di riferimento, siccome era un’abitazione “pulita”, non la conosceva neanche la polizia, essendo incensurato, non c’era questo problema… faceva un carico di sei, sette, otto chili e andava a Palermo in due parti divisi, una famiglia e un’altra famiglia. Che succedeva? Faceva così un’altra volta, andava a Trapani e si portava due partite di cocaina, per dire tre chili e quattro chili, cinque chili con cinque chili, e la divideva. Questione di minuti. Faceva il primo posteggio qua, dopo due minuti a un chilometro, a due chilometri». Quando poi doveva avvenire il pagamento della droga, l’organizzazione – secondo il racconto in aula di Vinciguerra – pagava innanzitutto la metà, e poi «l’altra metà piano piano, in quindici giorni. E funziona tutto così. Poi che succede? Ravasco fa il giro, prende i soldi. Siccome i soldi sono tutti impacchettati con la carta bianca trasparente, e c’è ogni mazzetta la somma: cinquemila, diecimila, quindicimila…». Ravasco, poi, secondo il pentito «chiamava Zoccoli» che a sua volta «prende un calabrese e ci fa fare il giro a prendere i soldi, e Ravasco Giacomo ce li porta. E difatti io poi nel mio mandato di cattura vedo che il signor Ravasco Giacomo si fa fare compagnia di mia moglie per portarci i soldi ai calabresi. Gli ho detto tutto già». «A quanto pagava la droga?» chiede la pm a Vinciguerra, che risponde: «(…) io quando sono uscito non gli davo soldi, perché uno deve essere sincero con sé stesso. Io non gli davo soldi. Ora lui per farmi lavorare me la dà a trentadue, trentatré, trentuno. Però già da trentuno mila euro, trentadue mila euro, già costa assai, perché già a Catania la prendevano già molte persone a trentamila euro, a ventinovemila euro. Io di fatti poi ero costretto a venderla a duecento grammi, a trecento grammi, con mio nipote Giuseppe Condorelli, perché ero io e mio nipote Giuseppe Condorelli e basta». (g.curcio@corrierecal.it)
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