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«Reciterò la bellezza di Alessandria del Carretto come fosse una preghiera»

Questa volta voglio andarci, sin lassù. Dove la montagna è spartana, severa, che ti vien voglia di pattinarci su.In lontananza, spruzzi di neve. Alberi spogli, come soldati arresi e vinti. Nell’ol…

Pubblicato il: 06/02/2024 – 9:01
di Felice Foresta*
«Reciterò la bellezza di Alessandria del Carretto come fosse una preghiera»

Questa volta voglio andarci, sin lassù. Dove la montagna è spartana, severa, che ti vien voglia di pattinarci su.
In lontananza, spruzzi di neve. Alberi spogli, come soldati arresi e vinti. Nell’oligarchia della loro diversità, sembrano diagrammi inversi. Eppure ti servono per disegnare un attraverso. Attraverso la stagione di un incanto in enclave.
Questa volta voglio andarci, sino ad Alessandria, ad Alessandria del Carretto. Sino al limitare della nostra terra. Sin dove la Calabria si sposa di Lucania.
È lontana, Alessandria. Lontana e dimenticata. Ma io voglio andarci. La distanza è una misura relativa. Non conosce i dogmi del tempo. Li asseconda come gli conviene.
E, allora, per cucire una terra che, da secoli, va avanti a furia di rattoppi, t’inventi una necessità.
Avvicinarti a quel paese perché è in festa e allungare le mani sino ai suoi eroi, sino ad accarezzarli.
I tuoi passi nell’ovatta del silenzio non hanno peso. Sono un impasto di rughe buone che lasciano solchi sullo zucchero a velo. Che ti pare quasi di lasciare ricami sulla nuca di una sposa.
È difficile spiegare cosa si provi, quando si è soli, in piazza, davanti  i Połëcënëllë biëllë e i Połëcënëllë bruttë, in una conca di Pollino smerigliata di bellezza. Davanti a uno specchio di alabastro e pietra, come sono i palazzi di questo paese che è un ricamo d’Umbria tra le spore di un canto greco.
La Calabria dove non ha strade costruisce ponti. E così ti sembra di essere salito sul tetto del mondo. Là dove non esiste tempo, confine, bisogno. Solo occhi per pregare. E mani per danzare.
Forse, un giorno mi perderò. Mi dico, pensando a quel che ancora non ho visto. Ed è da lì che ripartirò. Da un passo, da una ferita, da una insurrezione balzana della curiosità.

Perché ho bisogno solo di camminare e guardare i luoghi, i paesi, gli spigoli del passato, che ho sotto gli occhi, e che pure, invece, non vedo.
Perché nei loro confronti ho un obbligo. Morale e sociale. Di riconoscenza e premura.
È da loro che vorrei poter ricominciare. Dalle queste montagne, da questi paesi abbandonati, dalla loro gente rintanata in se stessa. Dalle loro feste colorate e sobrie, al tempo stesso. Dai loro silenzi immortali. E dalle loro radici aggrovigliate. Dai luoghi in cui rimane sospesa la vita e la speranza di poter continuare la storia.
È da Alessandria del Carretto che voglio ripartire.
Perché, ne sono certo, è lì che tornerò per essere accolto.
E quando, domani, sarò lassù, al valico del mio appenino, non ricorderò la pioggia o la polvere che ho masticato. E neppure la pioggia e la nebbia che mi hanno reso ostile il cammino.
Conterò i sorrisi di chi ho incrociato tra questa gente, schiva di sospetto e madida di accoglienza, che è stata amico dei miei passi.
Dirò che la mia terra è sacrificio e rinuncia di altro.
Un voto fatto alla conoscenza.
Reciterò la bellezza di Alessandria del Carretto come fosse una preghiera.
Perché un luogo non te lo può raccontare nessuno.
Un luogo ti attende per raccontarsi da sé.
Una domenica di febbraio, quando la merla è già in volo e i Połëcënëllë biëllë battezzano il raccolto. Che sa di vita e primavera.

*avvocato e scrittore

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