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La riflessione

I paesi calabresi sono grani di un rosario che ha perso il filo

Anche ieri, ho letto di una diaspora sempre più incattivita. Muoiono i vecchi. Restano in pochi. Resistono a stento le nonne, protette da un grembiule e il crocifisso fra i seni. Non nascono bambi…

Pubblicato il: 10/02/2024 – 9:43
di Felice Foresta
I paesi calabresi sono grani di un rosario che ha perso il filo

Anche ieri, ho letto di una diaspora sempre più incattivita. Muoiono i vecchi. Restano in pochi. Resistono a stento le nonne, protette da un grembiule e il crocifisso fra i seni. Non nascono bambini. Le classi, a scuola, sono cartelle della tombola quando la scorza dei mandarini è quasi terminata. Banchi vuoti e disegni alle pareti cadenti e impolverati. 
I ragazzi, invece, partono. Solo qualcuno, vinto dalla nostalgia o dal sentimento, tornerà. 
Non hanno la valigia di cartone, i ragazzi dei paesi che partono. Hanno una ferita in più, tuttavia. Una consapevolezza che si fa certezza indomita. L’abbandono è diventato un processo irreversibile. 
Si spopolano, così, i paesi calabresi. Avvinti dall’oblio. Accecati da una crisi di identità magmatica e paludosa. 
I marcatori economici sono condanne. Rimane una vita a dimensione d’uomo, resistono tradizioni, usanze, rapporti umani veri. Ma con questo , purtroppo, non si mangia e non si campa.
E, poi, più su rimane lei. La bellezza che commuove. Una fontana. Un palazzo. Una badia. 
O, forse, solo una giornata mite di febbraio in cui ne ho aggiunto altri tre al mio granaio. Adesso, me ne mancano solo un centinaio e poi li ha avrò visti tutti. Conosciuti no. 
La conoscenza è una cosa diversa.  La conoscenza è come la bellezza, una  vetrina. Luminosa, che sembra di essere a Natale. 
La bellezza dei paesi calabresi è luminosa e, però, anche racchiusa. Sopita, casta, dignitosa.
Riposa nella storia. Dei loro nonni. Dei loro cani che rubano ancora il sole in piazza. Delle loro crepe e delle loro ferite. Dei loro piccoli eroi del quotidiano. Dello loro sedie impagliate che fanno le fusa all’uscio. Dei loro bar che sono cenacoli, dove la vita si sposa alla filosofia, alla zappa e all’uggia del tempo che non abbiamo più. Angiporti in cui si commercia quello che abbiamo perso perdendo i nostri paesi.
La bellezza dei paesi è la bellezza di un profumo. Bacca e sandalo, prugna e camino, ragù della domenica e speranza all’addiaccio.
Un profumo che restituisce ai loro visi aneliti e stigmate di immortalità. 
Adesso devono combattere ancora di più, i paesi. Non solo contro una lacerazione del proprio tessuto umano per una fuga senza ritorno, ma anche per non rischiare di cadere nell’oblio di una crisi economica magmatica e paludosa. 
Adesso, però, siamo al bivio decisivo. A quello, ultimo. 
Adesso, tocca ai calabresi capire se crederci o meno, se farne scommessa e opportunità, oppure definitiva desolazione.
Bisogna, però, evitare di cadere in un tranello e avere il coraggio di vincere una ritrosia provinciale. 
La riscoperta dei paesi gli esperti un po’ radical chic la chiamano turismo di prossimità. Quasi fosse un ripiego. Una concessione che non costa tanto. Visite fugaci, un pranzo in trattoria, il portale di una chiesa. Poi, nient’altro. E amici come prima, ognuno per la sua via.
Questo non basta e, soprattutto, non basta.
La riscoperta dei paesi è, invece, un’elegia che tutti dovremmo conoscere e declinare. Frugalità e radici. Un domani che viene da lontano. La verità dei nostri padri che si perpetua. 
Forse, il tempo non ci basterà per leggere nel pentagramma della vita dei nostri paesi. 
Forse, ciò che lasceremo in un paese del nostro tempo nessuno ce l’ha mai insegnato. 
Quel tempo, però, lo troveremo nelle coste della sera, quando ci basterà un angolo di coscienza netta per sentirci paghi. E vivi. 
Davanti anche a un senso di colpa.  Davanti ai tetti che custodiscono ormai solo vuoti a perdere. 
E davanti a una vecchia e bellissima insegna. Ad aspettare che, domani, qualcuno tornerà. E farà la barba alla nostalgia.

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