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Futuri possibili

Gaudio: «Rilanciare le aree interne? La Calabria non parte da zero»

Il ricercatore della postazione regionale del Crea delinea i punti di forza e le criticità di un territorio che rappresenta l’80% della regione

Pubblicato il: 11/02/2024 – 7:02
di Roberto De Santo
Gaudio: «Rilanciare le aree interne? La Calabria non parte da zero»

RENDE Territori fragili, colpiti da spopolamento ed abbandono progressivo delle attività produttive. Aree in cui è in atto una rarefazione progressiva dei servizi e per questo dei diritti: dalla mobilità passando alla salute e all’istruzione. Ma viceversa anche un enorme contenitore di risorse non sfruttate. Un potenziale costituito da servizi ambientali (in termini di salubrità dell’aria, qualità delle acque e dei suoli), paesaggistici, culturali e turistici che trae origine proprio dall’essere stati protetti dalle pressioni antropiche disfunzionanti di un’economia aggressiva. Potenzialità talmente potenti da garantire un futuro possibile, e diverso all’intera regione.
È la doppia lettura che si può offrire di intere porzioni di territorio rappresentate dalle aree interne della Calabria. Varianti di una realtà in cui, per questo, convivono lo spettro della marginalizzazione definitiva contestualmente alle potenzialità del modello di sviluppo sostenibile. Custodi anche di paradigmi di inclusione economica e sociale, visto che sono luoghi in cui le reti relazionali sono intrecciate da rapporti strettissimi tra abitanti. Un futuro sospeso su un filo sottilissimo e che separa il baratro dal riscatto di una vasta area della Calabria se si consideri che interessa l’80% dell’intera regione. Per questo è importante calibrare al meglio l’utilizzo delle risorse – ingenti – a disposizione della regione e intraprendere correttamente la strategia di accompagnamento al riscatto di questi territori. Ne è convinto Franco Gaudio, ricercatore della postazione regionale calabrese del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) – Centro di ricerca di politica e di bioeconomia di Rende. Per uno dei maggiori conoscitori delle dinamiche socio-economiche delle aree rurali della Calabria, «c’è molta strada da fare ma non si parte da zero perché in questi anni la Calabria ha conosciuto esperienze di successo».

La Calabria sta subendo un processo di spopolamento che sembra inesorabile. Sono le aree interne a subire maggiormente l’esodo. Anche dal vostro osservatorio risulta questa evidenza?
«È proprio così. È da diverso tempo che la Calabria subisce un processo di spopolamento, soprattutto a partire dal 2010 con un incremento maggiore a partire dal 2017. Questa perdita di popolazione è dovuta all’andamento delle nascite che dal 2010 si fa sempre più critico. Ma anche il flusso migratorio (iscritti e cancellati dall’anagrafe per cambio di residenza in altri comuni o per l’estero) evidenzia dal 2014 una curva discendente preoccupante. A subire soprattutto questo fenomeno sono i comuni classificati come aree interne (intermedio, periferico e ultraperiferico). Si tratta, secondo la definizione della strategia nazionale delle aree interne, di quei comuni localizzati nei territori fragili, cioè distanti dai centri principali di offerta dei servizi essenziali. Questi territori coprono il 60% del territorio italiano, il 52% dei comuni e il 22% della popolazione. E addirittura in Calabria la presenza delle aree interne copre l’80% del territorio e dei comuni, il 58% della popolazione. In questi comuni negli ultimi 50 anni la popolazione si è ridotta di un quarto nei comuni intermedi e di un terzo in quelli periferici e ultraperiferici. Complessivamente nelle aree interne la popolazione è diminuita di un quarto; mentre in Calabria diminuisce del 7,3%».

Questo fenomeno nei decenni è coinciso con l’abbandono dell’agricoltura e delle attività tradizionali nelle zone rurali calabresi. Come un cane che si morde la coda dovremmo assistere anche ad un processo di desertificazione delle attività produttive?
«Nelle aree interne calabresi l’agricoltura svolge un ruolo importante per la popolazione, ma anche per la tutela dell’ambiente e del rischio idrogeologico. Nel corso degli ultimi 40 anni le aziende sono diminuite del 56%, la sau del 25% e la superficie totale del 41%. Ma mentre negli ultimi 20 anni le aziende continuano a diminuire, negli ultimi dieci la SAU (superficie agricola utilizzata) diminuisce solo di poco. La superficie totale addirittura aumenta. Questo implica che le dimensioni medie delle aziende agricole aumentano passando dai 3,3 ettari di sau del 1982 agli attuali 5,7. La superficie totale delle aziende agricole passa da 5,5 ettari a 7,5. Quindi ancora e soprattutto grazie agli ultimi anni l’attività agricola viene garantita sia nelle aree ad agricoltura intensiva che in quelle interne dove le opportunità di lavoro si riducono».

Qualcosa sembra muoversi per invertire la tendenza. L’avvio della Strategia nazionale per le aree interne è finalizzato a questo scopo. Le risorse per la Calabria sono sufficienti?
«Tante sono le risorse che arrivano in Calabria. Basti pensare ai programmi di sviluppo rurale, ai programmi operativi, alla strategia delle aree interne e anche al Pnrr. Obiettivo dei programmi di coesione è proprio quello di ridurre il divario tra le aree del paese e anche all’interno della regione. Le Aree Interne sono definite in termini di distanza dai servizi essenziali (servizi scolastici, sanitari e di trasporto ferroviario). Dunque l’area interna si caratterizza per la “lontananza” dai centri di offerta di servizi essenziali. In Italia sono state selezionate – nel ciclo 2014-2020 – 67 aree e – nel ciclo 2021-2027 – altre 56 per un totale di 1.904 comuni, 4,6 milioni di abitanti e 94.027 kmq. In Calabria la strategia nazionale delle aree interne ha riguardato nel periodo 2014-2020 quattro aree: l’area Grecanica, l’area Ionico-Serre, il Reventino-Savuto e la Sila-Presila. Sono coinvolti 58 comuni (14% del totale dei comuni calabresi), 91.529 abitanti (5% della popolazione) e 2.297 kmq del territorio (15% dell’intera superficie territoriale regionale). Nel periodo 2021-2027 altre tre aree si aggiungono a quelle selezionate: l’alto Jonio Cosentino, Alto Tirreno-Pollino e il Versante Tirrenico Aspromonte. In questo caso sono il 12% dei comuni, il 6% della popolazione e il 14% della superficie territoriale. Complessivamente la strategia nazionale delle aree interne in Calabria rappresenta più di un quarto dei comuni, l’11% della popolazione e il 29% del territorio. Inizialmente la Calabria aveva puntato con risorse ingenti (200 milioni di euro) a questa strategia che con il passare del tempo si è ridotta a quanto appena descritto. Resta, comunque, una fetta importante di territorio fragile su cui intervenire per cambiare la rotta».

L’ex ministro Fabrizio Barca che lanciò la Strategia nazionale per le aree interne

Cosa occorrerebbe fare di più per rafforzare questa strategia e rilanciare le aree interne calabresi?
«La strategia iniziale promossa da Fabrizio Barca aveva costruito un clima di fiducia per queste aree che finalmente ricevevano attenzione per una loro rinascita. Le risorse messe a disposizione sono pari a 591 milioni di euro che si aggiungono agli stanziamenti provenienti dai programmi operativi (fondi SIE e altri) con l’obiettivo principale di rallentare ed invertire lo spopolamento di queste aree. Concorrono a raggiungere questo obiettivo i progetti di sviluppo locale finanziati dai fondi europei e interventi di miglioramento dei servizi primari con risorse nazionali. Al finanziamento si arriva con una strategia d’area, frutto di un partenariato di area che vede coinvolti tutti i soggetti che abitano l’area interna, approvata dal dipartimento per le politiche di coesione e che porta alla sottoscrizione di un accordo di programma quadro che impegnano i territori per l’attuazione degli obiettivi definiti nelle strategie. Tuttavia, la strategia delle aree interne non ha funzionato, ha perso nel corso del tempo lo slancio innovativo, non è riuscita ad imprimere un cambio di rotta alle traiettorie di sviluppo. Bisognerebbe indagare cosa non abbia funzionato: forse il suo carattere, orientato maggiormente al rafforzamento amministrativo dei comuni più che allo sviluppo vero e proprio? Oppure la difficoltà a coordinare i diversi livelli di governance?».

Uno degli elementi di debolezza è il progressivo depauperamento dei servizi di assistenza alla popolazione. Dalle scuole, alla rete delle poste alla riduzione di servizi di trasporto pubblico. Come rispondere a queste esigenze, visto la progressiva riduzione dei trasferimenti di risorse agli enti più piccoli?
«Il vero rischio di queste aree è che dal declino demografico si passa al declino dei servizi di base (meno scuole, uffici postali, presidi sanitari, mobilità) compromettendo la permanenza degli abitanti in aree diventate desertiche dove non sarà possibile vivere. Come viene descritto “lo sviluppo di questi territori, non soltanto rappresenta un’opportunità di sviluppo equo per l’intera Italia, ma la possibilità stessa di insediamento di nuove attività economiche e la creazione di occupazione è strettamente correlata al potenziamento dell’offerta qualitativa e quantitativa dei servizi essenziali che ne rappresenta dunque una precondizione assoluta e necessaria”. È vero sono sempre meno i trasferimenti di risorse verso queste aree dove la maggior parte dei comuni sono di piccole dimensioni. Ma il problema prioritario non è la mancanza di risorse, quanto l’assenza in questi comuni delle competenze per poter formulare strategie di area e programmare gli interventi degli accordi quadro. Spesso in questi comuni mancano i responsabili degli uffici preposti a programmare gli interventi. Lo spopolamento è anche fuga di cervelli e competenze».

Il ministro Roberto Calderoli “padre” del decreto sull’Autonomia differenziata

Intravedete in questo senso ulteriori rischi legati alla piena applicazione dell’autonomia differenziata per il futuro delle aree interne calabresi?
«L’autonomia differenziata parte da lontano. Nel 2017 la Lombardia e il Veneto hanno tenuto dei referendum consultivi per l’attribuzione di forme ulteriori di autonomia. Nel 2018 sono state approvate intese con tre regioni (Emilia Romagna, Lombardia e Veneto). Infine è stato approvato il disegno di legge Calderoli il 23 gennaio 2024. Questo disegno di legge “definisce i principi generali per l’attribuzione alle regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia previste dall’articolo 116 della Costituzione, nonché le relative modalità procedurali di approvazione delle intese tra lo Stato e le singole regioni interessate”. L’attribuzione dell’autonomia è consentita se vengono determinati i cosiddetti livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Questo dovrebbe servire per garantire in tutte le regioni un livello uniforme di servizi. Il problema è che le regioni del nord tratterranno una percentuale di risorse riscosse sul proprio territorio e questo comporterà per lo Stato la possibilità di gestire meno risorse per erogare quei servizi, nelle regioni meridionali meno sviluppate e quindi con una capacità fiscale inferiore. Anche se il disegno di legge prevede misure di riequilibrio territoriale, l’autonomia delle competenze in capo alle Regioni comporterà modelli organizzativi e gestionali regionali che produrranno livelli di servizi diversi. Anche le stesse retribuzioni potrebbero essere diverse. In definitiva, l’autonomia differenziata potrebbe aumentare i divari già esistenti nei servizi tra le Regioni. E i LEP non garantiscono una omogeneità del livello dei servizi pubblici. Già adesso esistono forti disparità tra le regioni nella sanità e nei servizi sociali che dovrebbero essere prioritariamente colmati ma che necessitano di ingenti risorse che non sembrano esserci».

Il professore Vito Teti, in una recente intervista con il Corriere della Calabria, ritiene che il valore dei centri storici e delle aree interne della regione potrebbe costituire una sorta di riserva per le generazioni future. I livelli di inquinamento e l’insostenibilità della vita nelle metropoli, nel corso dei decenni prossimi potrebbe spingere la popolazione ad andare in cerca di zone più tutelate. È un sogno o una prospettiva possibile?
«Molti ricercatori e studiosi si stanno occupando delle aree interne. Oltre al professor Teti, anche il gruppo che fa riferimento ad “abitare l’Italia”, coordinato dal professor Domenico Cersosimo, si è occupato di una recente ricerca sulle aree interne. Entrambi auspicano un ritorno alle aree interne. Il professore Teti nella recente intervista citata lamenta la “mancanza di buona politica” per le occasioni perdute, ma crede che le aree interne “questi luoghi vuoti, tristi, amati, odiati diventerebbero la salvezza di quanti potrebbero, per i grandi rivolgimenti climatici, fuggire dalle grandi città o dal mare”. D’altra parte con la pandemia molti hanno preferito vivere l’isolamento, grazie anche allo smart working, in piccoli centri. Si avverte una nuova rivalutazione delle aree interne che possono rappresentare un’ alternativa allo stress delle grandi città non più vivibili da un punto di vista ambientale. Anche il professor Cersosimo insieme alla professoressa Sabina Licursi con l’ultima pubblicazione “Lento pede”, si interroga se è possibile vivere in luoghi, aree demograficamente rarefatte. La loro risposta è che è possibile e che la ricerca lo testimonia. C’è ancora vita in queste aree sostengono. Ma “serve il coraggio delle sperimentazioni …, servono politiche dal basso e dall’alto … per far diventare strategie, progetti, azioni le visioni di futuro che maturano anche in questi luoghi”».

La Calabria sta facendo qualcosa sotto questo aspetto?
«Sono molti i programmi che vengono attuati e le risorse (fondi comunitari e nazionali) che vengono spese in Calabria ma forse andrebbe rivista la modalità di intervento per migliorarne l’efficacia. Troppe le governance presenti sullo stesso territorio, troppi i programmi di intervento spesso con obiettivi diversi e non coerenti. Forse sarebbe il caso di far confluire sullo stesso territorio programmi diversi ma con obiettivi comuni. Si sa, i processi di sviluppo hanno tempi lunghi e non sempre sono lineari. C’è molta strada da fare ma non si parte da zero perché in questi anni la Calabria ha conosciuto esperienze di successo. Bisogna solo farle uscire dalla loro dimensione puntiforme e farle diventare un sistema». (r.desanto@corrierecal.it)

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