COSENZA Chi lo conosce dice che a volte tende a essere un po’ musone. Stenti a crederlo perché Francesco Perri, che ha diretto centinaia di concerti in giro per il mondo, ogni volta che sale sul podio ha un entusiasmo trascinante. Non ci credi quando parla della formazione di nuove figure professionali della musica, oppure dei suoi lavori per il cinema. Come la colonna sonora composta per “Il teorema della felicità” di Luca Fortino, a marzo nelle sale. È un musicista felice. «Sì, sono felice perché nell’arco della mia vita artistica ho fatto di tutto, anche i manifesti dei miei concerti. Ho scritto le mie melodie, le ho pubblicizzate, ho suonato, ho diretto, ho realizzato i progetti dal primo all’ultimo tassello, dall’ideazione alle cose più pratiche. E questo, oltre a farmi sentire più completo, oggi mi consente di avere una visione totale».
È stato allievo di Bellugi, Pavlov e Gergiev. Nato a Cosenza nel 1972, a 16 anni aveva già la maturità classica in tasca. Dal 2020 dirige il Conservatorio “Stanislao Giacomantonio” di Cosenza. La sua creatura è l’Orchestra sinfonica Brutia, guidata insieme con il direttore di produzione, la giornalista Annarita Callari. Fondata dal Comune di Cosenza e dallo stesso Conservatorio, è stata riconosciuta dal Ministero della Cultura come ICO (Istituzione concertistica orchestrale) ed è ormai un’offerta significativa e di qualità sia per il pubblico, sia per i musicisti che combattono contro il precariato. Se vuoi incontrare Francesco Perri devi andare nella città vecchia, salire le scale dell’ex convento di Santa Maria della Sanità e bussare a una porticina all’ultimo piano.
«Sinceramente? Francesco».
«Direi di sì, il mio mondo artistico si è letteralmente diviso in due. Un conto è scrivere per sé stessi o per un progetto particolare, un altro è scrivere per un committente completamente diverso, che in questo caso è la musica per audiovisivi, una dimensione talmente affascinante che può diventare ancora più creativa».
«Io sono un italiano e il mio suono deve avere le caratteristiche del nostro mondo musicale. Il grande Ennio Morricone ma anche Carlo Rustichelli, Armando Trovajoli, Riz Ortolani e i tanti musicisti che hanno iniziato a fare cinema durante il neorealismo, si riconoscono principalmente per alcune tipiche caratteristiche che, però, diciamo che dagli anni Novanta in poi si sono perse. Un po’ come è successo per la musica leggera. Penso che alcuni registi non abbiano molto a cuore l’identità del cinema italiano e neanche la tradizione del suono italiano».
«Ci sono tutte le caratteristiche della definizione di colonna sonora italiana dall’attenzione verso la cantabilità, la melodia, l’orchestra; e poi c’è il flauto dolce, la chitarra; ci sono alcuni strumenti percussivi, in particolar modo i tamburelli, ma in generale è un uso particolare della melodia a costituire la nostra identità. Noi siamo i rappresentanti più vicini dell’opera lirica, del bel canto. Non bisognerebbe dimenticarlo. E invece oggi molte colonne sonore sono semplici loop di matrice elettronica o degli ambient, che a volte non hanno un nesso logico con il film. Le produzioni comprano direttamente i brani dalle music library messe a disposizione dal mercato».
«Per “Il teorema della felicità” abbiamo impiegato, tra produzione e post-produzione, quasi sette mesi, un tempo ormai impensabile per una colonna sonora. È stato un lavoro accurato, meticoloso di scrittura direi tradizionale, quasi alla Morricone appunto, sul pentagramma con la matita e la gomma, fino alla finalizzazione sui software in sala di registrazione».
«In media sono quaranta, ma a volte arrivano anche a settanta e la cosa bella è che c’è una buona percentuale di ex allievi del “Giacomantonio”. Cerco in tutti i modi, per quello che mi è dato, di trattenere i giovani musicisti, di evitare che ci sia questa continua emorragia verso il nord. C’è un’immagine che non dimentico, quella di un corriere che durante il lockdown mi consegnava i libri acquistati online. Era molto giovane e quando è arrivato alla mia porta l’ho guardato bene e l’ho riconosciuto, era un ex studente del Conservatorio. Gli ho chiesto, meravigliato: “ma tu che ci fai qua?”. “Non trovavo lavoro”, ha risposto. Mi ha molto ferito vedere un ragazzo costretto ad abbandonare la sua strada. È chiaro che un Conservatorio non può essere un ufficio di collocamento, ma quanto meno bisogna avere una visione, dare gli indirizzi, ipotizzare e cercare possibilità lavorative».
«L’idea è creare un polo attrattivo dedicato al mondo degli audiovisivi. Nell’arco della mia direzione ho attivato nuovi corsi riservati al mondo delle tecnologie. Oggi abbiamo i corsi di laurea in Tecnico del suono, di Musica applicata (unico in Calabria), oltre a Musica elettronica. Il problema è che non abbiamo spazi, le nostre sedi non riescono ad assorbire un bacino ampio di utenza. L’amministrazione comunale di Cerisano ci ha offerto la bellissima struttura di Palazzo Sersale, dove ci sarà la possibilità di creare un polo dotato di sale di doppiaggio, di registrazione anche per grandi orchestre, di laboratori di sperimentazione sul suono».
«La mia idea è stata sempre quella di studiarli, innanzitutto, di capire cosa hanno fatto materialmente, poi di contestualizzarli nel loro periodo storico. Sì, perché io ho una mia visione: molti compositori sono sicuramente geni dell’umanità, ma sono anche frutto di una politica che li ha sostenuti. Beethoven è un gigante, però è stato oggetto, anche dopo la morte, di tutto un fermento; c’è stata una linea ideologica, politica, artistica che ha contribuito a sostenere e incentivare la sua grandezza. Nel caso dei nostri compositori, cosiddetti minori, la disposizione geografica in cui sono vissuti ha inciso sulla loro vita artistica? Questa è la domanda».
«Credo che abbia inciso. Alcune opere sono molto interessanti, come quelle di Luigi Gullì, un compositore nato a Scilla che molti neanche sanno chi sia. L’anno scorso abbiamo realizzato due incisioni discografiche sugli integrali per pianoforte di Alessandro Longo, vissuto alla fine dell’Ottocento. Nell’anno appena trascorso abbiamo celebrato il Centenario dalla morte di Stanislao Giacomantonio, con un nuovo allestimento de “La leggenda del ponte”. Sto cercando di creare attenzione sugli autori del passato e di invitare le nuove generazioni a studiarli».
«Gustav Mahler. L’Adagietto della Quinta sinfonia, che è il tema del film di Visconti “Morte a Venezia”; rimane sempre bellissimo. Ecco farei quello». I rumori di quest’angolo di Portapiana sarebbero piaciuti a Mahler. Tra le corde e gli archi degli allievi e le note che rimbalzano sui tufi, irrompe il suono bronzeo delle campane della Sanità. In una stanza della direzione c’è un prezioso strumento a corde del liutaio De Bonis, su una scrivania un libro sulle nuove “macchine per comporre”. Cose sacre del passato e poi futuro. Uno degli ultimi concerti diretti dal maestro, quello dello scorso Capodanno, si è aperto con “La grande porta di Kiev”, brano monumentale del russo Modest Petrovič Musorgskij e si è chiuso con “Tico tico” di Zequinha de Abreu e una samba del pubblico tra le poltrone. Perri ha invitato degli spettatori sul palco, li ha fatti accomodare tra un contrabbasso e un trombone.
Una buona abitudine. Prenotiamoci.
(redazione@corrierecal.it)
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