«Se scatta Pantani vienimi a svegliare». Avevo 15 anni e di ciclismo non capivo granché. Era estate, quella umida e fuori orario dei mondiali di calcio americani, e il mare era distante neanche 100 metri da casa. Sentivo sul mio cuscino il suo odore, le onde, le urla festanti dei bambini e quelle agitate dei loro genitori, e mi piaceva svegliarmi così ogni mattina. Eppure tutti i pomeriggi di quel mese di luglio del 1994, me ne stavo davanti alla piccola e vecchia tv grigia del mare che, non abbiamo mai capito perché, ci faceva vedere a colori solo i canali del neo presidente del Consiglio, mentre gli altri erano tutti in bianco e nero. L’unica cosa che quelle frequenze avevano in comune, era il passaggio del treno lì vicino, che oltre a far tremare le mura in pietra e i pavimenti della casa ferroviaria dei miei nonni, anneriva lo schermo per una decina di secondi, proprio nel momento in cui Marco Pantani scattava. Come se le Ferrovie dello Stato conoscessero in anticipo le strategie del “Pirata”, battezzato così di lì a poco. Ma non era grave, perché quell’ometto romagnolo tutto smilzo e pelato con addosso la divisa della “Carrera jeans”, a me e a mio padre di scatti ne avrebbe regalati altri cento al giorno. Tutti speciali, tutti spregiudicati e insensati, tutti uno più bello e diverso dall’altro.
«Papà, oggi resta giù, che vai a dormire a fare? Tanto lo sai che tra poco scatta».
Niente, non c’era verso. Mio padre alle tre in punto saliva al piano di sopra per farsi la pennichella pomeridiana. Non prima, ovviamente, di avermi avvisato: «Se scatta Pantani vienimi a svegliare». E allora io sul più bello di una qualsiasi tappa di montagna di quel Tour de France dominato da Miguel Indurain, ero costretto ad affrontare la solita breve pendenza di corsa, arrivare davanti al letto matrimoniale col fiatone in gola e dire a mio padre, già in fase di spifferi acuti fuoriusciti dalla bocca, che Pantani era scattato. Per sentirmi rispondere sempre la stessa cosa: «Ma com’è possibile, sono appena salito».
Penso che quel risveglio improvviso, che in fondo mi faceva sentire importante, a un certo punto fosse diventato un rito propiziatorio, di quelli che, se ripetuti sistematicamente, non ti deludono mai. E in effetti, Pantani, in quei giorni, non ci tradiva mai. Sull’Hautacam, sul Tourmalet, sul tremendo Mont Ventoux, sull’Alpe d’Huez, a Val Thorens, dove cadde sfiorando il ritiro per poi inventarsi una incredibile rimonta. Mai una vittoria, mai un colpo di fortuna, ma quegli scatti significavano molto di più di un arrivo con le braccia alzate a indicare il cielo.
Qualche anno dopo, precisamente il 14 febbraio del 2004, quando quell’ometto romagnolo tutto smilzo e pelato è stato trovato morto in una anonima camera d’albergo, mi sono tornati in mente quei pomeriggi con mio padre, che senza volerlo, mi ha trasmesso una passione strana e incomprensibile. Quella per certi fragili eroi del ciclismo, che per diventare tali, non hanno avuto altra scelta che affrontare le pene dell’inferno di mille e più salite impossibili. Salite che, però, alla fine del percorso, non possono che portarti da una sola parte: sulla montagna più alta del paradiso. (f.veltri@corrierecal.it)
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