La realtà, spesso, supera l’immaginazione. Prima il carcere lo dirigi e poi, un triste giorno, ci finisci dentro. Quasi che di respirare la stessa aria di chi è privato della libertà, non si possa fare a meno. Così è stato per Angela Paravati, che, da direttrice (fino al 2022) dell’Istituto penitenziario “Ugo Caridi” di Catanzaro, l’altro giorno è stata «tratta in arresto, nell’ambito dell’inchiesta sui presunti illeciti nella gestione della struttura detentiva». La giustizia deve fare il suo corso. Nel rispetto delle ragioni di accusa e difesa. E del monumentale principio di presunzione d’innocenza, che non tollera giudizi sommari. Né condanne mediatiche, di cui si hanno innumerevoli, tragiche, esperienze scolpite nella pelle di chi c’è capitato. Tutto ciò, vale anche per la dottoressa Paravati.
Alla giustizia il compito di vagliare con scrupolo le contestazioni che le vengono mosse. A chi ha avuto modo di osservare la direttrice dell’ “Ugo Caridi” alle prese con «un’umanità ferita ma bisognosa di redenzione, perché scontare la pena – ha detto Papa Bergoglio – può diventare per un detenuto occasione per cominciare una vita nuova», l’obbligo di segnalare un tratto significativo della professionalità di Angela Paravati. Che non è stata una funzionaria dello Stato preoccupata soltanto di svolgere pedestremente le proprie incombenze, in un “luogo” che fa notizia per il sovraffollamento (60mila carcerati, 10mila in più dei posti disponibili), la carenze di personale e i suicidi (68 nel 2023); e in cui, da troppo tempo, si scarica la soluzione dei conflitti sociali, finendo per trasformare le carceri in «un centro di raccolta differenziata delle varie categorie deboli ed emarginate», vista l’alta percentuale di poveri, tossicodipendenti ed extracomunitari. A parte la piaga dei detenuti con patologie psichiatriche. Ma, in una situazione carceraria sempre più aspra e conflittuale, che di fatto impedisce di assicurare ai detenuti prospettive di riscatto e di reinserimento sociale, Angela Paravanti è stata una delle direttrici di carceri che, in dodici anni di lavoro, ha dimostrato, aprendo le porte dell’ ‘Ugo Caridi’ ad ogni contributo culturale esterno (dalle ottime sessioni di lettura-scrittura coordinate da competenze specialistiche, al laboratorio di pasticceria da cui è nato il libro ‘Dolcicreati’ con la prefazione di un maestro pasticcere di fama internazionale), di saper governare uno degli istituti penitenziari tra i più popolosi d’Italia, con una spiccata sensibilità costituzionale. Sempre ligia alle previsioni dell’articolo 27 della Carta costituzionale. La pena non come implacabile vendetta o sadica afflizione, né il carcere come un girono infernale dove rinchiudere colpevoli o presunti colpevoli e buttare la chiave. Ma la pena finalizzata a far prendere coscienza degli errori commessi e ridare una chance ai detenuti, sia quelli delle sezioni di massima sicurezza che ai tantissimi in attesa di giudizio. E il carcere non separato dalla società come fosse un altro pianeta, bensì concepito come uno spazio in cui i valori democratici non possono restare infinitamente sospesi, e che, nonostante l’accumulo impressionante di vecchie e nuove storture, deve garantire la dignità delle persone detenute.
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