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FUTURI POSSIBILI

Licursi: «I giovani non vogliono abbandonare i paesi. Ma servono politiche mirate»

La docente Unical di Sociologia generale offre uno sguardo attento dei territori periferici della Calabria. Ed avverte: «Non servono stereotipi»

Pubblicato il: 18/02/2024 – 7:00
di Roberto De Santo
Licursi: «I giovani non vogliono abbandonare i paesi. Ma servono politiche mirate»

RENDE Una concezione diversa della società. Alternativa possibile alla congestione delle metropoli. Occasione di sviluppare relazioni interpersonali autentiche contando su rapporti consolidati nel tempo. Intere aree da ripopolare grazie al progressivo abbandono dei centri. Così come ipotesi di creare economie sostenibili puntando al recupero di tradizionali attività locali o rivitalizzando un’agricoltura da chilometro zero. In altre parole ribaltare la narrazione dell’inesorabilità della desertificazione delle aree interne con l’annessa disgregazione economica e sociale dei territori. Un futuro possibile osservando da vicino come si vive nelle aree a margine di un’economia troppo avida e concentrata a competere su asset che puntano alla quantità.
Non uno sguardo idilliaco né tantomeno disilluso. Ma una lettura autentica per ricostruire lo scenario di vita vissuta nella miriade di paesi che popolano la Calabria e fornire gli attrezzi ai costruttori di futuri possibili – leggasi decisori politici, ma non solo – per ipotizzare o meglio mettere a terra interventi finalizzati ad offrire ipotesi di sviluppo per questa ampia fetta di territorio rappresentato dalle aree interne della Calabria.    
C’è tutto questo nella ricerca che anche gli Atenei calabresi – nella loro terza missione – stanno compiendo. Un’attività che vede Sabina Licursi, professoressa associata di Sociologia generale all’Università della Calabria, in prima linea. Assieme al professor Domenico Cersosimo ed in linea con il pensiero di Vito Teti, la docente interpreta al meglio quel ruolo propositivo, lontano da iperboliche ipotesi di costruzione del futuro della regione. Partendo dal basso. Dalla conoscenza delle reali condizioni in cui si vive nelle aree «rarefatte» della Calabria.

Una rete di contatti stretti, rapporti interpersonali forti e solidarietà. C’è del vero o è solo retorica nel descrivere le condizioni di socialità che caratterizzano le aree rarefatte della Calabria?
«Le aree interne calabresi sono contesti differenti, ma non alieni. Per conoscerle meglio non servono gli stereotipi, che le descrivono come arretrate e definitivamente inabitabili, né le letture romanzate di idilliaci equilibri interpersonali o tra ambiente naturale e presenza umana. I piccoli e piccolissimi paesi che le compongono hanno la loro ordinarietà anche nelle relazioni. Nei vicoli dei centri storici, tra gli abitati di più recente costruzione, nelle e tra le contrade si producono e riproducono solidarietà e conflitti. Sono contesti vivi, sebbene rarefatti. Presentano una complessità di rapporti tra le persone e le famiglie che non si caratterizza in positivo o in negativo tout court. È vero, invece, che i residenti si conoscono un po’ tutti e che i legami tra loro sono spesso il risultato di una costruzione sociale e culturale che si radica nella storia personale e familiare. Questo, probabilmente, conferisce affidabilità alla socialità paesana, consente di costruirsi un quadro dei contatti attivabili in caso di bisogno e di considerare lo spazio pubblico del paese, sicuro perché frequentato da persone note e di cui si sa se ci si può fidare».

Lento pede. Vivere nell’Italia estrema (Donzelli 2023), a cura di Domenico Cersosimo e Sabina Licursi

Avete condotto una ricerca sul campo, quali sono le principali assenze di cui soffre chi vive in questi territori?«La ricerca e i risultati principali a cui fa riferimento, sono contenuti in Lento pede. Vivere nell’Italia estrema (Donzelli, 2023), a cura di Domenico Cersosimo e mia, ha ricostruito un quadro composito delle criticità e delle risorse dei paesi dell’interno. Infatti, l’indagine sul campo nelle quattro aree pilota calabresi della Strategia nazionale per le aree interne (Snai) 2014-2020 ha consentito di incrementare la conoscenza disponibile sui territori marginalizzati e di acquisire il punto di vista di chi li abita. Le “assenze” – per riprendere la sua domanda – sono l’espressione più acuta del divario civile enorme che segna la vita nel margine, ossia la scarsa o assoluta indisponibilità dei servizi fondamentali di cittadinanza nel campo della salute, dell’istruzione e della mobilità. A mancare sono anche adeguate opportunità lavorative e, per effetto dello spopolamento, in molti contesti l’assenza più dolorosa è quella di quanti sono partiti, spesso interi nuclei familiari. Una dinamica ben documentata da tempo da antropologi come Vito Teti e che negli ultimi anni è diventata ancora più allarmante. In Lento pede documentiamo queste criticità: da una parte, la desertificazione di servizi del welfare sociale e sanitario, le criticità della scuola in confronto con le altre aree interne italiane, la mobilità, spesso negata, per un trasporto pubblico insufficiente e inadeguato, con una dilatazione patologica dei tempi di percorrenza anche quando si utilizza l’auto privata, dall’altra parte, l’erosione demografica, il calo della natalità, la contrazione delle coorti di età più giovani, e il conseguente degiovanimento della popolazione».

Lento pede. Vivere nell’Italia estrema (Donzelli 2023), a cura di Domenico Cersosimo e Sabina Licursi

In quella ricerca emerge anche tanta voglia dei giovani di restare. Come la spiega?
«Sì, è vero, molti giovani (e non solo) vogliono restare. Come accennavo, la ricerca ha inteso anche cogliere la prospettiva dei residenti. Lo ha fatto condividendo l’approccio che l’Associazione Riabitare l’Italia sta sviluppando in numerose pubblicazioni. Si tratta di una prospettiva che rompe il silenzio che per decenni ha contraddistinto il dibattito pubblico sulle aree interne e riconosce l’agency di quanti le abitano, l’esistenza di un quotidiano che resiste e assume dignità, le limitazioni del contesto ma anche le risorse che esso offre, la restanza e i ritorni di giovani e non solo, le sperimentazioni che aiutano a dare risposte locali e che trasformano a volte i vincoli in opportunità. Tornando alla sua domanda, tra i circa seicento giovani (18-39 anni) intervistati è prevalente la posizione di quanti resteranno (32% del campione) o vorrebbero farlo (31%). Il resto del campione si divide tra quanti lasceranno il comune di origine (27%) o avrebbero desiderio di farlo ma pensano di non avere le risorse necessarie per partire (il 10% circa). La voglia di restare dei giovani, quindi, c’è. Per capire meglio cosa motiva quelli più decisi a restare (un terzo circa del campione) li abbiamo messi a confronto con quelli che invece hanno deciso di partire (poco meno del 30%). Le differenze principali tra chi resta e chi parte attengono, per un verso, a caratteristiche socio-demografiche, e, per altro verso, al coinvolgimento nella quotidianità dei paesi in cui vivono. Rispetto alle caratteristiche socio-demografiche, si nota che la propensione a restare sembra riguardare più gli uomini delle donne. In generale, le giovani donne vedono fuori dai luoghi di origine maggiori opportunità di realizzazione personale e lavorativa. Significativamente più bassa è l’età media di chi sta pensando alla partenza e tra questi è molto più rilevante la presenza di giovani che frequentano l’università e che, probabilmente, immaginano vite diverse, grazie alle connessioni con l’esterno e all’esperienza maturata fuori dal paese. Oltre la metà dei giovani restanti ha già un lavoro, sebbene non sempre con occupazioni stabili o di lungo periodo. Le altre tappe tipiche della vita adulta (autonomia abitativa, matrimonio, figli) sono ancora ampiamente non raggiunte per entrambi i profili».

Lento pede. Vivere nell’Italia estrema (Donzelli 2023), a cura di Domenico Cersosimo e Sabina Licursi

E con riferimento ai legami con i paesi?
«Sì, dicevo che a fare la differenza tra giovani che restano e giovani che partono sono, anche, i legami con i luoghi, le valutazioni circa le potenzialità delle risorse naturali e le opportunità di vita che ci sono o che mancano. Tra quanti pensano di restare è maggiore la propensione a coinvolgersi in attività associative o di gruppi, anche informali, attivi a livello locale; diversamente, la maggioranza di chi immagina di partire sembra non avere interesse a prendere parte alla sfera pubblica locale. Tra i primi è più elevata l’attesa che le risorse naturali del territorio (clima, paesaggio o morfologia, altitudine, vegetazione, fauna selvatica ecc.) possano tradursi in risorsa per l’economia, ad esempio nel campo del turismo e dell’agricoltura. Nella percezione di questi giovani, il contesto offre un potenziale di capitale territoriale (le risorse naturali e ambientali e il milieu relazionale, soprattutto) tale da soddisfare le attese per il presente e per la costruzione di uno sviluppo futuro. I secondi, invece, tendono maggiormente a sottolineare le fragilità del territorio (dissesto idrogeologico, incendi ecc.), piuttosto che le azioni possibili per la sua valorizzazione economica. Chi resta individua la motivazione principale della sua scelta nella possibilità di godere di una migliore qualità della vita (ritmi più lenti, salubrità, qualità del cibo ecc.). Si tratta di una motivazione che trova completamento nell’espressione di un legame forte con la comunità, che tuttavia non si accompagna a una visione idealizzata della vita. Una giovane intervistata spiega così la sua scelta di restare: “Nel desiderio di restare credo che vi sia un legame con il paese […]. Rimango qui non perché sono sempre rimasta qui e non conosco il resto. […] Io preferisco restare qui perché sto bene nel mio territorio e non avverto la necessità di spostarmi in un altro luogo”. Chi ha deciso di partire, invece, sembra individuare proprio nella mancanza di opportunità per una vita soddisfacente in loco la ragione per lasciare il paese. Cerca un lavoro, certo. Ma non è solo questo. Vuole anche allontanarsi da un luogo che percepisce come angusto, troppo piccolo o che si è già troppo spopolato per poter essere attrattivo: “Il futuro lo voleva largo, e il tondo della piazza nostra non gli bastava” scrive Sonia Serazzi (Il cielo comincia dal basso, Rubettino, 2018) per spiegare la scelta di lasciare il paese in un romanzo che racconta anche del partire dal Sud. Sembra essere questa essenzialmente la motivazione di chi progetta di andare a vivere altrove, di partire per separarsi. I giovani che partono sognano la città, più frequentemente fuori dalla Calabria (63% dei partenti), meno spesso fuori dall’Italia (16,2%), più raramente in Calabria (12,3%)».

Circa un terzo di giovani vorrebbe rimanere nel proprio territorio, ma chiede supporto per garantire il futuro

Ma cosa chiede quel 30% degli intervistati che vorrebbe restare se ne avesse l’opportunità?
«Non chiedono la Luna!Tra i giovani intervistati, dicevo, ci sono anche coloro che esprimono insieme la speranza di restare e la consapevolezza delle difficoltà che il desiderio di vita autonoma può incontrare nei territori marginalizzati. Li abbiamo chiamati i restanti potenziali, quelli che resterebbero a condizione di trovare in loco le risorse in grado di supportare il loro futuro, e anche quelli più disponibili a ridefinire i propri obiettivi in ragione delle possibilità che si presentano. Si tratta di giovani che andrebbero sostenuti con interventi mirati, per assicurare loro la possibilità di lavorare, di accedere ai servizi essenziali e di continuare a partecipare alla vita di piazza dei loro paesi».

Sempre più attività chiudono soprattutto nei piccoli paesi, rendendo difficile la permanenza

Diminuzione dei servizi, riduzione delle attività produttive, spopolamento, queste zone sembrano andare spedite verso la desertificazione. Si è raggiunto un punto di non ritorno o ritiene che ci sia ancora speranza nel riscatto?
«Difficile dare una sola risposta per tutti i piccoli e piccolissimi paesi delle aree interne calabresi. Le previsioni statistiche ci restituiscono un quadro di rapidissimo declino demografico, dovuto soprattutto allo squilibrio tra nascite e decessi. Per alcuni di questi comuni l’arrivo dell’anno “zero popolazione” è prossimo, per altri è un po’ più distante, e per pochissime realtà si vedono timidi segni di tenuta grazie alla scelta di accogliere famiglie e giovani stranieri. Bisogna, però, sottolineare che il declino demografico delle aree interne non è un destino, può essere contrastato, così come la rarefazione della popolazione che oggi le caratterizza non deve necessariamente corrispondere a una peggiore qualità della vita».

Un esempio di abbandono di un quartiere di un paese in Calabria

Cosa fare, allora?
«Servono politiche mirate, in grado di produrre un’inversione di rotta, che facciano proprio il paradigma place-based promosso con la Snai da Fabrizio Barca. Un approccio in grado di guardare ai residenti non come cittadini bisognosi, meri destinatari di servizi standard o di investimenti calati dall’alto, bensì come co-protagonisti dei disegni del welfare e dello sviluppo locale. Come si sostiene in un testo che prova a fare il punto sulla Snai – L’Italia lontana. Una politica per le aree interne (Donzelli, 2022) – è il metodo dell’azione pubblica che può fare la differenza ed è la più accurata conoscenza dei territori marginalizzati che può animare una stagione di politiche sensibili ai luoghi e a chi li abita nel Paese. Pensiamo, per chiudere, alla questione della rarefazione demografica. Le dinamiche della popolazione in Italia fanno pensare che sia destinata a diventare una condizione sempre più diffusa. Allo stesso tempo, le aree attualmente rarefatte subiranno ulteriori processi di diradamento umano se non si arresta il circolo vizioso che incoraggia lo spopolamento: meno servizi spingono le persone a partire e meno persone riducono gli investimenti in servizi. Occorre allora, prioritariamente, intervenire nel margine per evitarne la desertificazione, ma anche qualificare ovunque la rarefazione per renderla abitabile. La strada è quella della ri-territorializzazione dell’intervento pubblico, è il superamento della dittatura del tot, ossia dell’imposizione di standard per organizzare i servizi: un numero minimo di alunni per classe e istituto scolastico, un certo numero di abitanti per la farmacia, per la caserma dei carabinieri, per l’ufficio postale e così via. La strada è il sostegno delle iniziative dal basso, che pure esistono nel campo della salute e dell’istruzione e che dimostrano che anche dove si è in pochi è possibile stabilire sinergie tra attori pubblici locali e associazioni di cittadini. La strada è l’avvio sperimentale di percorsi che consentano di rispondere alle esigenze di cittadinanza dei residenti e di ricostruire spazi di partecipazione e co-costruzione di risposte su misura. Dunque, non subire come un destino lo svuotamento delle aree interne serve ai territori marginalizzati, ma può essere occasione per apprendimenti utili all’intero Paese». (r.desanto@corrierecal.it

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