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Navalny e quell’atto di profonda “resistenza e resa”

Venerdì scorso, in una colonia penale russa nel circolo polare artico è morto Alexei Navalny. Era stato avvelenato più volte, malgrado ciò, nel gennaio del 2021 decise di ritornare in patria dalla…

Pubblicato il: 19/02/2024 – 10:50
di don Ennio Stamile*
Navalny e quell’atto di profonda “resistenza e resa”

Venerdì scorso, in una colonia penale russa nel circolo polare artico è morto Alexei Navalny. Era stato avvelenato più volte, malgrado ciò, nel gennaio del 2021 decise di ritornare in patria dalla Germania dove veniva curato. Per molti una scelta assurda perché, comunque, in un modo o nell’altro, lo avrebbe condotto alla morte. Dopo un processo farsa ed una condanna a dir poco risibile, il regime lo aveva deportato in una delle prigioni più dure ed estreme della Siberia. In quelle condizioni è difficile sopravvivere per lungo tempo, infatti dopo una passeggiata nell’ora d’aria consentita, Alexei è morto mentre la temperatura faceva segnare i 31 gradi sotto lo zero. La sua vicenda per molti aspetti mi ricorda quella di Dietrich Bonhoeffer, il pastore protestante coinvolto nel fallito attentato ad Adolf Hitler organizzato dal colonnello della Wehrmacht Clauss Schenk von Stauffenberg, nel luglio del 1944. In uno dei passaggi più significativi delle sue lettere scritte dal carcere annotava: «spesso ho pensato a dove passino i confini tra la necessaria resistenza alla “sorte” e l’altrettanto necessaria resa». Il teologo tedesco cerca di rendere esplicita questa sua affermazione facendo riferimento ai protagonisti del capolavoro di Cervantes dove Don Chisciotte è il simbolo della resistenza fino all’assurdo, alla follia; mentre Sancio Panza è la rappresentazione ideale dell’adattarsi alle circostanze, senza porsi problemi, con freddezza e furbizia. Penso che il gesto di Alexei di consegnarsi nelle mani del nemico sia stato un atto di profonda “resistenza e resa”. Una libertà, la sua, che nessuna prigione può pensare di incatenare, perché è vera, profonda, spirituale, che mette a nudo la falsità di ogni regime da cui nasce il crimine ancora insuperato “dell’occhio per occhio, dente per dente”, attraverso il quale l’oltraggio dev’essere lavato con il sangue. Un gesto nobile, che scardina fin dalle radici quell’adattarsi alla logica del più forte o ad opporsi facendo ricorso alla violenza. Proprio come Bonhoeffer, Alexei, ha creduto che «resistenza e resa debbano sempre essere presenti in un atteggiamento mobile e vivo per reggere in maniera forte e significativa alle situazioni del presente e renderle feconde». Bonhoeffer scrive queste righe qualche giorno prima di essere impiccato il 9 aprile del 1945, a poche settimane di distanza dalla caduta del regime nazista. Oggi, all’indomani della morte di un altro martire della resistenza come lui e a distanza di due anni dall’invasione Russa dell’Ucraina, siamo chiamati ad interrogarci sul significato che diamo alle parole pace, resistenza e resa. A discapito di chi pensa il contrario la pace non può essere mai “pacifica”, tale, cioè, da consentire rapporti di buone relazioni con tutti anche con coloro che calpestano i più basilari diritti di cittadinanza come la libertà, l’uguaglianza, la giustizia. In nome di questo falso e contraddittorio concetto di pace si sono potute intrattenere “pacificamente” relazioni d’affari e commercio con la Russia fino a quel fatidico 24 febbraio 2022, persino andando in giro indossando magliette che inneggiavano a Putin. Salvo, poi, rispondere con le armi in nome della democrazia violata, nei confronti del vecchio partner d’affari senza tener conto delle migliaia di persone che perdono la vita, la casa, il lavoro, il presente ed il futuro. Secondo la lungimirante e profetica visione di Bonhoeffer il conflitto può essere “reso fecondo” proprio da quell’atteggiamento “mobile e vivo”, che rinuncia ad ogni tentativo di reazione cedendo alle logiche del rispondere al male con altrettanto male e a quel si vis pacem para bellum. Un atteggiamento che sa arrendersi di fronte alla violenza, non per debolezza o ignavia, ma per salvaguardare vite umane, paesi ed intere città che inevitabilmente vengono distrutte in ogni conflitto. Resistenza convintamente non violenta che deve ricevere l’appoggio, vero e incondizionato di tutte le nazioni democratiche per l’isolamento totale del regime opposto. La guerra in Ucraina, ma anche quella nella striscia di Gaza, fanno emergere con inquietante evidenza quanto sia ancora diffusa oggi, nel mondo, la sottocultura della logica del più forte con il suo potere marcescente, corrotto e corruttore. Facendo nostra la grande lezione di Bonhoeffer e del martirio di Alexei, la resa non coincide affatto con la fine della lotta ma è esattamente il contrario: rappresenta il suo più incisivo e duraturo inizio. Il valore supremo della forza civile, dell’opposizione di massa, e la convinzione che nessun regime può reggersi all’infinito senza consenso, ha spinto uomini e donne come Ghandi, Nelson Mandela, San Suu Kyi, tanto per citarne solo alcuni, ad essere voce disarmata e disarmante di quella insurrezione culturale necessaria ad ogni vero processo di liberazione.

*Rettore UniRiMi

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