Citando una massima di Dostoevskij, Indro Montanelli sosteneva che la grandezza della Chiesa cattolica fosse quella di «non credere in Dio». Sessant’anni dopo il Concilio Vaticano II la Chiesa di oggi sembra affrontare una crisi di identità che si respira nel numero sempre minore di credenti. Paradossalmente, la fine del nemico storico del Novecento, il comunismo, sembra averne colpito le fondamenta. La grandezza della Chiesa, specialmente nel nostro Paese, è la ramificazione delle chiese, presidio sociale prezioso e insostituibile. Ma, dopo la morte di Ratzinger, pur apprezzando la dimensione straordinaria di Papa Francesco, sembra prevalere una sorta di trasformazione ontologica gradita soprattutto ai non credenti e cioè una sorta di associazione carismatica che non parla più di fede e di temi spirituali. Non vi è alcun dubbio che una Confessione religiosa abbia ragione di esistere solo nella laicità. Ma ciò che è avvenuto negli anni ha quasi determinato una secolarizzazione compiuta che lascia un ulteriore spazio al nichilismo generalizzato. Senza volgari generalizzazioni è molto probabile (per quelli che vanno a messa) ascoltare discussioni di natura sociale e politica piuttosto che elaborazioni di fede e di speranza. Che l’aspetto della testimonianza e della solidarietà siano principi essenziali del cristianesimo è innegabile ma che debbano essere unica liturgia è un aspetto che rischia di creare una frattura tra ciò che per sua natura è dogmatico e la platea di possibili credenti. Proprio Dostoevskij invidiava giustamente chi aveva una grande fede, che è una ricerca antropologica primaria ed è anche il modo migliore per affrontare l’angoscia della morte presente in ognuno di noi. La crisi del messaggio cristiano chiama in causa diverse ragioni, l’Occidente in particolare e la sua decadenza e l’impossibilità di coniugare l’evoluzione dei tempi con la conservazione valoriale. La fede ha bisogno soprattutto di sentire parlare di Dio, di speranza, di resurrezione e di ciò che è per sua definizione trascendentale, condizione che oggi viene quasi razionalizzata anche nei settori più forti della teologia. Il tertium non datur è la via di mezzo tra l’ateismo e la religiosità. La complessità del vuoto interiore apparso nel Novecento chiama in causa proprio la decomposizione delle ideologie che ha lasciato un deserto spaventoso. Ma la Fede è più che un’ideologia. È un mistero, può naturalmente essere confutata e anche ridicolizzata con la ragione, ma non può essere motivo di rinuncia a rivendicarne il messaggio. Grandi teologi hanno messo in correlazione la crisi religiosa con l’industrializzazione prima e la globalizzazione poi. Elementi non trascurabili ovviamente. Nel paradigma del cristianesimo, mentre la Chiesa rimane una solitaria e splendida voce di contrasto ( oggi di meno) contro mutazioni geopolitiche dettate da interessi di sopraffazione, i protestanti sembrano esprimere ragioni di fede più convincenti. Che sia una questione transitoria o una crisi progressiva sarà il tempo a dirlo. Non è certo la laicità del messaggio cristiano a fare paura in un contesto in cui viene giustamente esaltato il libero arbitrio. Non abbiamo certo bisogno di Teocrazie ma più semplicemente di Dio. Un grandissimo esponente del progressismo cattolico, il cardinale Martini, diceva che, «la parola non può cedere alla sola completezza delle azioni». Un sentiero che diventa imprescindibile per chi vuole conservare l’illusione o la certezza che la dimensione umana non sia l’unica realtà esistente.
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