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Omicidio Maltesi, ergastolo per Davide Fontana in appello

I giudici: «Omicidio crudele e premeditato». La zia della vittima: «Giustizia è fatta»

Pubblicato il: 21/02/2024 – 22:21
Omicidio Maltesi, ergastolo per Davide Fontana in appello

MILANO La Corte d’assise d’appello di Milano ha condannato all’ergastolo Davide Fontana per l’omicidio di Carol Maltesi. Il bancario e food blogger 44enne di Milano l’11 gennaio 2022 uccise a Rescaldina la 26enne, con cui intratteneva una relazione, sferrandole 13 martellate e una coltellata con la donna legata, imbavagliata con lo scotch e incappucciata mentre i due filmavano un video hard, che lui stesso le aveva commissionato attraverso un finto profilo social per venderlo su Only Fans. La corte, presieduta dalla giudice Ivana Caputo, ha accolto il ricorso del sostituto procuratore generale di Milano, Massimo Gaballo, e riformato la sentenza di primo grado della Corte d’assise di Busto Arsizio che il 12 giugno 2023 lo aveva condannato a 30 anni per omicidio, soppressione e occultamento di cadavere, escludendo però le aggravanti più pesanti ed evitandogli la pena del carcere a vita. Mercoledì i giudici hanno riconosciuto che l’omicidio fu premeditato e commesso con crudeltà. «Giustizia è fatta. Doveva pagare, nessuno ha diritto di togliere la vita in questa maniera. Non vedo l’ora di dirlo a mia sorella che è in ospedale, per questo non è qui», ha detto al termine del processo Anna Milazzo, zia di Maltesi e unica parente presente in aula. Il giorno dopo aver assassinato la 26enne, Fontana comprò un’accetta e un seghetto e tagliò in 23 pezzi il corpo. Inoltre, cercò di eliminare i lembi di pelle con i tatuaggi, senza riuscirci. Nelle settimane successive tentò di bruciare il corpo depezzato e, dopo averlo tenuto congelato in un freezer, acquistato online, all’interno di 5 sacchi neri, li gettò in un dirupo a Paline di Borno, nel Bresciano. Saranno proprio i tatuaggi a svelare l’identità di quei brandelli di corpo, trovati il 29 marzo 2022. «Non so se potrò mai essere perdonato per quello che ho fatto, darei la mia vita per tornare indietro», ha detto il 44enne, difeso dagli avvocati Stefano Paloschi e Giulia Ruggeri, che ha reso dichiarazioni spontanee. «So che posso apparire freddo o distaccato quando parlo ma ripenso ogni giorno a ciò che ho commesso e provo grande sofferenza, sono fermamente deciso a voler riparare per quanto possibile alle mie azioni. Per questo motivo ho chiesto l’aiuto delle istituzioni», ha aggiunto facendo riferimento a programmi di giustizia riparativa. «Vorrei chiedere di nuovo scusa a tutti», ha concluso rivolgendosi in particolare ai «genitori di Carol» (alla madre è stato riconosciuto un risarcimento definitivo da 168mila euro) e al figlio, oggi di 7 anni, della giovane italo-olandese per il quale in primo grado è stata stabilità una provvisionale da 180mila euro confermata. I parenti e il padre del bambino erano assistiti dalle avvocatesse Manuela Scalia, Anna Maria Rago e Veronica Villani. Secondo l’accusa, il movente della furia omicida sarebbe da ricercare nelle volontà della vittima di tornare nel Veronese per stare più vicina al figlio, oltre alla gelosia per le relazioni sessuali e sentimentali con altri uomini. In primo grado le aggravanti delle premeditazione, futili motivi e crudeltà, caddero perché, secondo i giudici, «a spingere l’imputato a uccidere non fu la gelosia ma la consapevolezza di aver perso la donna amata». Fontana si sarebbe reso conto che la giovane «disinibita si era in qualche misura servita di lui per meglio perseguire i propri interessi personali e professionali» per poi allontanarsi «scaricandolo» e spostando «il fulcro dei suoi interessi sentimentali e professionali a Praga, dove viveva il collega di lavoro e nuovo fidanzato» e per «andare ad abitare a Verona, da dove avrebbe potuto più agevolmente raggiungere la capitale ceca e, contemporaneamente, occuparsi del figlioletto». Nessuna premeditazione perché mancanti le prove di una «significativa organizzazione dell’omicidio» a cominciare dal non essersi costituto un «alibi» e dall’aver messo in atto «raccapriccianti condotte» ma confusionali per «circa due mesi per liberarsi definitivamente del corpo», in contrasto con un piano preordinato. Una versione ribaltata mercoledì dai giudici d’appello che hanno fissato in 30 giorni il deposito delle motivazioni.  

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