COSENZA Ancora oggi se un proprietario di un aranceto di Rosarno passa da un parente che abita a Pisa porta in omaggio dei frutti della sua terra. E così fa un abitante di Cuti con il pane e un avvocato di Spilinga con la ‘nduja. Tutto questo non nasce per caso. “Con l’uccisione del maiale c’era l’abitudine di recapitare alle persone di riguardo, ma anche ai parenti, agli amici, e ai vicini di casa, una porzione di carne, la migliore”. Ne trovo traccia e origine di queste nostre sane abitudini di relazione leggendo il primo romanzo di Giuseppe Trebisacce, autorevole docente di pedagogia per 4 decenni all’Unical e fino a questo momento “soltanto” autore di pregiate ricerche sulla storia dell’educazione e della scuola in Calabria e nel Mezzogiorno, il quale si è deciso a tirar fuori dal cassetto dove stava da vent’anni “Cicciarèlle, come un romanzo”.
Trebisacce ha scritto con lingua piana e scorrevole una saga familiare che si svolge tra fine ‘800 e Seconda guerra mondiale nella sua terra d’origine collocata nell’Alto Jonio Cosentino. La protagonista che porta il nome del titolo, diminuitivo di Beatrice, è il pretesto per narrare una condizione collettiva come romanzo. Trebisacce ha scritto una sorta di “Alberi degli zoccoli” in ambientazione calabrese. Con una differenza sostanziale. Rispetto al capolavoro filmico di Ermanno Olmi, caratterizzato da quieta pace cattolica, qui l’autore non manca di omettere la grettezza, l’avidità del calcolo, la violenza brutale, gli odi feroci che caratterizzarono le opere e i giorni della nostra cultura contadina che in tempi di rivolta dei trattori ancora omettiamo con bucolico riflesso condizionato. Pur se lo abbiamo dimenticato, noi calabresi delle diverse Calabrie siamo discendenti per circa due terzi di quella storia. Il resto erano piccoli nuclei borghesi delle città e un pugno di latifondisti. Un esercito di poveri che con la fatica delle terra ha sempre trovato sussistenza alimentare a differenza dei contadini di Olmi che vissero di polenta e pellegra nella Pianura Padana, mentre a quelli calabresi, come nel libro è ben raccontato, scarpe, abiti, svaghi, istruzione furono negati per molti decenni.
Cicciarelle è anche un nostro specchio collettivo su come la nostra società si sia contaminata ed evoluta grazie a figli spuri, amori illegali, patriarcato antico come ogni ricordo alligna nei nostri racconti di famiglia immaginandolo esclusivo e invece enormemente diffuso tra il Pollino e lo Stretto.
La piccola storia della famiglia contadina raccontata da Trebisacce s’incastona nei grandi avvenimenti della Storia.
Un treno che passa con la bandiera italiana è la notizia che la Prima guerra mondiale è finita. Il capostazione conferma, i contadini tornano in paese e uno di loro suonerà le campane “ininterrottamente per due giorni, perché aveva fatto voto per un figlio in guerra”. E’ Scèpp a rucchetène (Giuseppe di Rocca), uno dei tanti personaggi che affollano la trama come una sorta di presepe vivente, i quali parlano spesso nello stretto dialetto del luogo (filologicamente tradotti con dovizia d’accento nelle note). Frasi che come un apostrofo spesso appaiono nel testo in un quasi sempre riuscito pastiche letterario contaminato con l’italiano sovrano.
Anche l’apparire e la caduta del fascismo non ha nulla di ideologico. Cicciarèlle e il marito si sposano in un anniversario della marcia su Roma e il corteo nuziale incrocia un drappello di fascisti rumorosi che fa chiosare al narratore “la maggioranza della popolazione aderì quasi naturalmente al nuovo corso politico andando al rimorchio di quei pochi che avevano esercitato sempre ruoli di comando”. E’ la morale del Gattopardo, ma anche le adesioni passive del popolo che si rintracciano in Levi e Silone, e che in Calabria sono radici di un trasformismo del bisogno e del potere che arriva ai giorni nostri, in una regione che la Resistenza l’ha affidata il larga parte ai figli sbandati che si trovavano da tutt’altra parte.
In un romanzo del genere non poteva mancare l’emigrazione, rapporto con il mondo di ogni paese e città della Calabria. Un vecchio eremita percepisce in modo sensitivo che un piroscafo sta affondando in America e i genitori che hanno un figlio su quella barca troveranno conforto all’arrivo di un telegramma che si è salvato, come avviene oggi per chi annega a Cutro (è cambiato solo il mezzo veloce del telefonino), e questo ci spiega perché come calabresi ci sentiamo fratelli di chi viene da tanto lontano. Giambattista tornerà in America acquistando un biglietto con un prestito, don Prosperino di idee anarchiche peregrina tra Corsica e Tunisia, l’idraulico Vincenzo che racconta di essere stato cantante al Teatro Colon di Buonos Aires, Battista, fidanzato di Cicciarèlle “una vita di sacrifici e rinunce” dall’Argentina aveva portato sessantamila lire, una vera fortuna. In Calabria l’emigrazione ha avuto grandi esodi di massa. Tra il 1876 e il 1901 varcarono l’oceano oltre 310.000 calabresi. Una demografia che ancora oggi ci consegna una popolazione calabrese esterna molto superiore a quella dello spopolamento odierno. E se questa torna ad essere Storia, la storia di Cicciarèlle è il piattone avuto in prestito dalla cognata di Vittoria che va in mille frantimi, e che il marito ricompra con due giorni di lavoro dissodando liquirizia “perché nella povera gente il senso dell’onore e dell’orgoglio è assai forte”. E’ storia di raccolta d’olive scambiandosi le giornate di lavoro con i vicini per mutuo soccorso (chi ha detto che non abbiamo mai cooperato?), dell’arrivo del cesso pubblico in piazza perchè quel servizio era in casa di pochi, di bacchettate sulle mani a scuola e di ceci sotto le ginocchia in aule che avevano pessima pedagogia. Ci si ammalava di malaria, spagnola e vaiolo.
Scrive Trebisacce «Erano però rari i momenti di allegria in una vita che trascorreva senza sussulti, vissuta quasi con rassegnazione ma sempre con grande dignità». Disse Corrado Alvaro nel 1931: «In fondo all’animo del Calabrese c’è un’aspirazione ai concetti assoluti e alla metafisica; filosofare è ancora la sua occupazione preferita, essere paladino dell’autorità il suo orgoglio».
Forse nel sostrato di questo riflettere ci sono certe malinconie diffuse del calabrese postmoderno che nel tempo si iniziano a diradare. Trebisacce ci ricorda che piacere e dolore orientano la vita dell’uomo. Mi pare che con il piacere collettivo la Calabria è ancora in debito come saldo dal dolore. E’ certo un piacere riscontrarlo leggendo “Cicciarèlle”. Romanzo che si conclude il 2 giugno del 1946, come il recente fortunato film della Cortellesi, ma con esiti ben diversi, anche se ci sarà ancora un domani anche per la protagonista Beatrice.
(redazione@corrierecal.it)
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