CATANZARO Dare fuoco al vecchio capannone, farlo sembrare un incidente, intascare i soldi dell’assicurazione e aprire una nuova attività in società. Un piano all’apparenza perfetto ma che, al contrario, è stato segnato da una serie di errori di valutazione. Con queste accuse i militari della Compagnia dei Carabinieri di Girifalco hanno arrestato, questa mattina, due persone Antonio Infusino (cl. ’81) e Francesco Giannini (cl. ’86), accusati dei reati di incendio doloso e fraudolento danneggiamento di beni assicurati. Sono quattro, in tutto, gli indagati.
Gli arresti – disposti dal gip del Tribunale di Catanzaro Gilda Danila Romano, accogliendo solo in parte la richiesta della Procura – sono arrivati al termine delle indagini che hanno messo in fila un serie di episodi successivi ad un incendio avvenuto tra la notte tra il 14 e il 15 novembre del 2023. Quella notte ai Vigili del fuoco arriva una chiamata che segnala l’incendio di un capannone industriale. La zona indicata è contrada Difesa, nota come Zona Industriale catanzarese. Le fiamme, in particolare, investono la sede della “Inca Srl” di Antonio Infusino, un capannone-deposito all’ingrosso di articoli funerari, oltre al serio danneggiamento di altre strutture industriali presenti nella zona. Episodio poi denunciato ai Carabinieri di Caraffa di Catanzaro. Avviata l’indagine, però, i militari raccolgono sin da subito una serie di indizi di colpevolezza a carico dello stesso Antonio Infusino, legale rappresentate della “Inca Srl” proprietaria del capannone industriale, e di Francesco Giannini, titolare della impresa funebre DI.GI.SE.F (intestata alla moglie). Secondo l’accusa, infatti, sarebbero loro ad aver causato – dolosamente – l’incendio del capannone «per riscuotere il premio assicurativo da 1 milione e 404 mila euro».
Uno dei primi accertamenti è stato quello di interessare la Società E-Distribuzione Spa che, a specifica richiesta, riferisce che nel periodo d’interesse all’incendio non si erano affatto verificati picchi di tensione, escludendo così eventuali cortocircuiti come causa d’innesco dell’incendio. Inoltre, gli inquirenti acquisiscono le immagini di videosorveglianza di alcune aziende della zona. Immagini fondamentale e dalle quali – scrivono gli inquirenti – «si riscontrava che, nel periodo antecedente all’incendio, presso il capannone della ditta Inca Srl giungevano Antonio Infusino e un carro funebre di colore grigio riconducibile a Francesco Giannini». «Dopo una decina minuti, le immagini immortalavano il carro funebre allontanarsi da luogo, verosimilmente dopo aver caricato una bara di legno, visionabile dal lunotto posteriore». Così come ricostruito in fase investigativa, due minuti dopo, si nota un’evidente fuoriuscita di fumo dal capannone. Sono le 3.01 quando «dall’apertura della porta d’ingresso – scrivono gli inquirenti – emergeva chiaramente il bagliore delle fiamme e, non appena i quattro soggetti varcavano quella soglia per uscire dallo stabile, il crepolare delle fiamme era ben visibile anche all’occhio della telecamera». Le immagini acquisite, inoltre, hanno consentito di accertare la presenza di alcune persone, tra cui anche un vigilante «il quale riferiva che, al suo arrivo, l’incendio era già in atto e che, alcune persone presenti sul posto, avevano già provveduto a contattare i vigili del fuoco».
Le intercettazioni effettuate nei giorni successivi consentono agli inquirenti di acquisire importanti informazioni. Per esempio, Francesco Giannini e Antonio Infusino, per evitare dialoghi al telefono, si incontravano successivamente all’invito notificato dai Carabinieri nei confronti del primo. I due organizzano un incontro a Isca sullo Ionio e concordano la consegna di una fattura secondo l’accusa da «attribuite ad una vendita espletata da Infusino in favore della ditta di Giannini e riconducibile all’acquisito del cofano funebre prelevato la notte dell’incendio del capannone». Nel corso dell’attività tecnica gli inquirenti sono riusciti poi a ricostruire le intenzioni di Infusino, proprietario del capannone incendiato, attraversi una serie di contatti mirati a ottenere «il risarcimento dalla compagnia assicurativa del danno patito» mentre «gestiva le operazioni per la realizzazione di un altro stabile su cui aprire una diversa attività ma sempre del medesimo settore». «(…) ti volevo dire praticamente noi stiamo realizzando…io e il mio socio a Catanzaro la casa funeraria… si chiamerà “La Fenice”», così dirà al telefono Infusino mentre parla con una amico campano. La fenice che, scrivono gli inquirenti «per la mitologia dei popoli risulta essere un uccello in grado di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte».
Arriva poi la convocazione dei Carabinieri e Francesco Giannini si prepara, concordando con il suo dipendente la versione dei fatti da riferire. «(…) io mi sono fatto stampare tutte le cose e le ho portate, il contratto, l’atto di morte, tutte queste rotture di scatole per quella sera (…) da casa mia, siamo partiti da casa mia, con il carro mio… da là siamo andati e poi siamo tornati» «siamo passati dal capannone… per sistemare le casse, lo abbiamo saputo il pomeriggio e ogni tanto andavamo a chiedergli…». E ancora: «(…) stai tranquillo, tanto quattro domande vi faranno… chi vi ha chiamato e la notte, noi ci alziamo sempre la notte per queste cose… noi siamo andati a prendere la cassa e siamo partiti da casa mia siamo passati dal capannone, questo è… siamo arrivati li, un quarto d’ora… un quarto d’ora e siamo andati via…». Le dichiarazioni rese da Giannini, però, non coincidono con quelle della prima denuncia. Giannini, infatti, asseriva che la sera in cui prelevavano la bara, avevano odorato presenza di plastica bruciata all’interno del capannone, versione però che non veniva appoggiata dagli escussi, che riferivano entrambi di non avere sentito odore di bruciato, né tantomeno visto alcun tipo di fiamma. «…ho paura che sospettano qualcosa» dice poi uno dei dipendenti ascoltati dai carabinieri. «(…) gli altri sono stupidi… noi no!» risponde Giannini. E ancora il dipendente: «(…) gli ho detto mi sono messo in macchina e dopo trenta secondi siamo andati via…». «Abbiamo fatto una cazzata!» risponde, invece, uno degli indagati.
Secondo il gip, che ha accolto la tesi dell’accusa, le immagini di videosorveglianza «non lasciano spazio ad alcun dubbio in ordine al fatto che l’incendio sia stato appiccato da Antonio Infusino e Francesco Giannini e da altri due soggetti, identificati nei dipendenti S. G. e D. C. (indagati)». Per l’accusa, infatti, nel video di sorveglianza è evidente che «il fuoco divampa nel mentre gli stessi si trovano ancora all’interno del capannone industriale», smentendo le versioni di Infusino e Giannini. L’assenza di innesco, poi, non sorprende in quanto all’interno del capannone – come riferito dallo stesso Infusino – vi erano materiali altamente combustibili come cofani funebri in legno, abbigliamento e oggetti religiosi, nonché la presenza di bombole a gas per saldare.
La Pg è riuscita inoltre ad acquisire il contratto assicurativo sull’immobile incendiato, dove si riscontrava che il 7 novembre 2023, quindi solo otto giorni prima dell’incendio, Infusino Antonio aveva innalzati i massimali di risarcimento da 320 mila euro a 384 mila euro per il fabbricato e da 850 mila euro a 1 milione e 20 mila euro per il suo contenuto, per un risarcimento danni di 1 milione e 404 mila euro. Somma che, nelle intenzioni degli indagati, sarebbe servita anche per avviare una nuova realtà imprenditoriale ovvero una casa funeraria a Catanzaro, facente capo ad entrambi gli indagati. (g.curcio@corrierecal.it)
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