REGGIO CALABRIA «Un’unica ispirazione eversiva di minaccia allo Stato» e la «stretta “vicinanza” fra la ‘ndrangheta e i Servizi Segreti», tutto collegato da un fil rouge e una sinergia operativa tra i due organismi. È uno degli elementi più controversi e rilevanti emersi dal corposo processo “’Ndrangheta Stragista”, riportato nelle oltre 1.400 pagine della sentenza d’appello che, qualche mese fa, ha portato alla conferma della pena dell’ergastolo per Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, il boss di Brancaccio e l’esponente della cosca Piromalli di Gioia Tauro, già condannati in primo grado per l’uccisione dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, trucidati il 18 gennaio 1994 in un agguato avvenuto sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria nei pressi dello svincolo di Scilla.
I giudici nelle motivazioni prendono ad esame la famosa “Falange Armata”, con la quale sono stati rivendicati i fatti di sangue gravissimi commessi in Italia fra il 1990 e il 1994, in particolare l’omicidio dell’educatore carcerario Mormile, del magistrato Scopelliti e le stragi continentali, nonché l’omicidio dei due Carabinieri. La “Falange Armata” si manifesta «per la prima volta in occasione dell’omicidio dell’educatore carcerario Mormile» scrivono i giudici, ucciso in un agguato l’11 aprile del 1990 nei pressi di Carpiano, mentre si recava al lavoro, sulla provinciale Binasco – Melegnano. «Mormile – hanno poi spiegato gli esecutori diventati collaboratori – aveva ostacolato i contatti in corso di detenzione tra Domenico Papalia e i servizi segreti».
«(…) lo volevamo fare passare come terrorista, no come ucciso dalla ‘ndrangheta, perché là c’era Domenico Papalia in carcere…». A dirlo è stato Foschini, ‘ndranghetista legato ai Papalia, riferendo che l’uso della sigla “Falange Armata” «era finalizzato a depistare le indagini» ed «era stato suggerito ad Antonio Papalia dai Servizi Segreti». Il collaboratore Fiume – si legge ancora nelle motivazioni – dichiarava che l’omicidio Mormile, seppure eseguito per volere del “consorzio”, rappresentava in realtà un ordine dei Servizi Segreti che erano i veri mandanti, citando quale ulteriore caso analogo l’omicidio D’Agostino, per il quale era stato condannato Domenico Papalia, che in realtà si era dovuto assumere la responsabilità di eliminare la vittima, in quanto aveva tradito il patto con i Servizi Segreti». Anche Fiume, così come Cuzzola, ha fatto riferimento al generale Delfino e ai suoi rapporti con i Papalia, quando ha affermato che «dietro la ‘ndrangheta ci sono persone di livello superiore che decidono la “rotta”», raccontando anche di avere fatto anticamera, insieme a Giuseppe De Stefano e ai boss Pelle e Alvaro, presso lo studio di Rocco Papalia.
Dopo l’omicidio Mormile, la sigla “Falange Armata” rivendica anche quello del giudice Scopelliti, così come l’incendio al teatro Petruzzellis di Bari e l’uccisione del sovrintendente di Polizia di Stato, Salvatore Aversa e della moglie Lucia Precenzano, uccisi a Lamezia Terme il 4 gennaio del 1992. «Si doveva rivendicare tutto ciò che si colpiva lo Stato, alla “Falange Armata” doveva ritornare, anche se era… qualsiasi cosa, anche se non eravamo stati noi altri, diciamo, rivendicare subito “Falange Armata”», questo quanto riferirà poi il collaboratore Avola, riferendosi al correo Galea. Ulteriore “firma” della Falange era stata apposta dopo il verificarsi delle stragi continentali, su cui hanno riferito numerosi collaboratori. Grigoli, ad esempio, ha raccontato di aver appreso «da Giuliano che fu questi a effettuare le rivendicazioni con la sigla». Una rivelazione che «non lo stupì perché Giuliano era solito svolgere il ruolo di telefonista in occasione delle richieste estorsive nel mandamento di Brancaccio». Grigoli ha affermato ancora, così come riportato nelle motivazioni che «anche se non gli fu detto chiaramente, era certo che l’ordine di effettuare le rivendicazioni fosse partito da Giuseppe Graviano e, non appena avuta la notizia, aveva pensato che Cosa Nostra volesse sviare le indagini e che intendesse costringere lo Stato a rivolgersi alla mafia per fare cessare gli eventi, come avvenuto in occasione del sequestro Moro».
Che la “Falange Armata” fosse coinvolta nei più gravi eventi di matrice terroristica lo hanno confermato anche i diversi testi della pg ascoltati durante il processo. C’è, in particolare, il riferimento a un database informatico contenuto in un’indagine della Procura di Roma, nel quale erano state rinvenute «numerose rivendicazioni nell’arco di 24 ore: 6 episodi per Via Fauro, 8 per Via dei Georgofili, 8 per Via Palestro, per il Velabro e San Giovanni in Laterano» mentre le «telefonate provenivano da città diverse, da un soggetto di sesso maschile e talora con inflessione straniera». Il teste Spina poi «ha poi accertato la presenza, in un archivio delle forze dell’ordine, delle rivendicazioni effettuate dopo gli attentati ai Carabinieri». Per i giudici quindi «risulta pienamente provato l’utilizzo della sigla Falange Armata ad opera di Cosa Nostra, per finalità di depistaggio» così come nel caso dei Carabinieri uccisi e il cui attentato fu rivendicato proprio dalla sigla, frutto però, così come riferito dai collaboratori di giustizia «del “suggerimento” dei Servizi Segreti deviati». Quindi per i giudici è «del tutto evidente la dimostrazione dello strettissimo collegamento sussistente fra ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e i Servizi Segreti nel piano di destabilizzazione dello Stato, per il raggiungimento, ognuno, dei propri obiettivi di natura comunque eversiva».
Il collaboratore di giustizia calabrese Pasquale Nucera ha dichiarato che «tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 la ‘Ndrangheta, Cosa nostra, le logge massoniche, quelle deviate, i servizi segreti deviati, si sono inglobati e fusi in un unico progetto criminale» Il collaboratore ha poi aggiunto che «Antonio Mammoliti di Gioia Tauro aveva contatti con i servizi segreti deviati, precisando di averlo visto personalmente a Roma in un locale insieme a Broccoletti, appartenente al SISDE». «Antonio Papalia, Domenico Papalia, Franco Coco Trovato, Antonio Schettini, Carmine Di Stefano, Giuseppe Di Stefano. E anche Salvatore Pace si parlava di questi fattori dei Servizi Segreti, lo sapevano quasi tutta la ‘ndrangheta, non era una novità…», ha dichiarato invece il pentito Foschini, spiegando che in quel periodo era nota a tutti l’esistenza di rapporti di Papalia con i servizi, risalenti al periodo dei sequestri di persona. (g.curcio@corrierecal.it)
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