REGGIO CALABRIA Il nome del giudice Antonino Scopelliti torna più e più volte nelle mille e quattrocento pagine che compongono le motivazioni della sentenza d’appello del processo “’Ndrangheta stragista”. Un delitto “eccellente” menzionato da più collaboratori di giustizia che hanno raccontato come l’omicidio del sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, il 9 agosto 1991, avesse rappresentato un vero e proprio punto di svolta per la ‘ndrangheta in Calabria e per Cosa nostra in Sicilia. Da quel momento in poi verrà avviata in Calabria la strategia stragista all’interno della quale si consumeranno gli omicidi dei due carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, trucidati il 18 gennaio 1994 in un agguato avvenuto sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria nei pressi dello svincolo di Scilla. Condannati all’ergastolo per la loro morte, in primo e secondo grado, il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e l’esponente della cosca Piromalli di Gioia Tauro Rocco Santo Filippone. A unire le organizzazioni criminali calabrese e siciliana, secondo i giudici e la Procura di Reggio Calabria, «un’evidente convergenza o commistione di interessi che mirava al comune intento di destabilizzare lo Stato e sostituire la vecchia classe dirigente che, agli occhi dei predetti, non aveva soddisfatto i loro “desiderata”».
C’era un «complesso progetto criminale più ampio alla base degli agguati ai Carabinieri». Fu il collaboratore di giustizia Consolato Villani a raccontare di aver appreso sul punto informazioni riservate da Giovanni Chilà e dal cugino Nino Lo Giudice che, ricordano i giudici, «gli avevano riferito che prima degli attacchi ai Carabinieri vi era stata una riunione nella piana di Gioia Tauro “tra Gioia e Rosarno” a cui “parteciparono i personaggi che all’epoca rappresentavano la ‘Ndrangheta in tutto e per tutto… parliamo dei De Stefano di Reggio Calabria, in particolare mi è stato detto che ci fu Peppe De Stefano addirittura personalmente, e soggetti appartenenti ai Piromalli, e soggetti come un capo carismatico, come diciamo dei capi carismatici di cosa nostra siciliana”».
Lo stesso Villani indicherà la fase attuativa dell’accordo tra ‘ndrangheta e Cosa Nostra, il patto tra le due forze criminali calabrese e siciliana, all’epoca dell’omicidio di Antonio Scopelliti dicendo che successivamente a tale grave fatto di sangue i De Stefano-Piromalli che avevano dato il consenso all’omicidio “eccellente” del magistrato avevano accettato di continuare la strategia di Cosa Nostra “proponendo gli agguati ai Carabinieri”». Agguati che rappresentavano, dunque, la prosecuzione di tale strategia, atteso che «Totò Riina voleva portare la ‘ndrangheta, unitamente tutta la ‘ndrangheta, a fianco di Cosa Nostra, a partecipare a queste stragi».
E l’omicidio del giudice di Cassazione rappresentò anche la fine della guerra di ‘ndrangheta che aveva insanguinato Reggio Calabria dal 1985, con lo scontro tra i due schieramenti opposti dei De Stefano- Libri-Tegano-Latella-Barreca-Paviglianiti-Zito, da un lato, e dei Condello-Imerti-Fontana-Saraceno- Serraino-Rosmini-Lo Giudice, dall’altro (insieme ai Piromalli, Mammoliti, Ursini, Macrì-Commisso). La “pax” scoppia proprio nel 1991, dopo la quale le grandi famiglie di ‘ndrangheta di Reggio Calabria «tornarono ad essere, come in passato, una “cosa sola”» e per la quale ci fu l’intercessione di Totò Riina. «Molti collaboratori di giustizia siciliani e calabresi – scrivono i giudici – hanno riferito che la pace in Calabria fu voluta da Totò Riina».
Sull’intervento pacificatore di Riina è dettagliato il racconto del collaboratore di giustizia Villani: «Dobbiamo tornare un attimo indietro, e devo dire che nella pace che c’è stata a Reggio Calabria, la spinta per fare la pace a Reggio l’ha data Totò Riina. Salvatore Riina è venuto a Reggio, si è rivolto ai De Stefano, si è rivolto ai Piromalli, si è rivolto a tutte ‘ste diciamo famiglie di importanza strategica della ‘Ndrangheta, per fermare ‘sta guerra. Ma l’obiettivo qual era? Era fermare la guerra, però allo stesso tempo prendere degli accordi, perché Totò Riina voleva portare la “Ndrangheta, unitamente tutta la “Ndrangheta, a fianco di Cosa Nostra, a partecipare a queste stragi, che erano state già diciamo pensate. Effettivamente, la prima cosa che era stata pensata, e poi è stato fatto anche il piacere dai De Stefano, per quello che io so dai miei familiari, c’è stato 1’omicidio del Giudice Scopelliti, da lì viene fatto l’accordo tra una parte di ‘Ndrangheta e Cosa nostra».
Ma la pace si ottenne in cambio di un appoggio che la ‘ndrangheta assicurò a Cosa nostra. Un “do ut des” che si concretizzò nell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti che rappresentava la pubblica accusa nell’ultimo grado di giudizio al maxiprocesso istituito dal pool antimafia di cui facevano parte anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Tra le ipotesi dell’omicidio c’è quella che attraverso l’uccisione del pubblico ministero si potessero far scadere i termini di custodia cautelare degli imputati, oppure ritardare la condanna. Tutte circostanze che non si verificarono. Scopelliti fu anche destinatario di tentativi di corruzione, ma lui rifiutò. Fu il collaboratore di giustizia Gaetano Costa a dichiarare che «nel giugno ‘91, Giovanbattista Pullarà, uomo d’onore del mandamento di Villa Grazia legato da stretti vincoli fiduciari a Salvatore Riina, gli aveva chiesto di trovare un possibile contatto con il giudice Scopelliti allo scopo di ottenerne un aiuto per il maxiprocesso, riferendo il Costa di averlo indirizzato verso il boss Giuseppe Piromalli, al quale era legato intimamente e che riteneva essere uno dei più importanti capi della criminalità organizzata calabrese. Costa in seguito aveva appreso dal Pullarà “che il giudice era stato raggiunto, ma si era mostrato sordo ad ogni richiesta di aiuto ed a quel punto la sua morte era diventata inevitabile”».
E il collaboratore di giustizia Giuseppe Di Giacomo chiarirà che «nel momento in cui si era deciso nel 1992 di porre in essere il progetto stragista da parte di un gruppo ristrettissimo di Cosa Nostra (“il Ghota di Cosa Nostra”) rappresentato “da Tota Riina, Luca Bagarella, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano, e altri ancora” era stata chiesta l’adesione anche della “Ndrangheta che era già andata incontro a Riina con l’uccisione del giudice Scopelliti, quale contropartita del contributo dato da Riina per porre fine alla guerra di mafia (“la ‘Ndrangheta fece un favore a Totò Riina per l’omicidio di Scopelliti, perché partecipò Riina in qualche modo ad offrire una pax”) che dall’omicidio di Paolo De Stefano aveva comportato la consumazione di centinaia di omicidi». Dopo quello di Scopelliti verranno commessi gli omicidi dell’onorevole Salvo Lima, dei giudici Falcone e Borsellino e, a seguito della risposta dello Stato consistita tra l’altro nell’apertura delle carceri di Pianosa e dell’Asinara, era scaturita la volontà dei vertici di Cosa Nostra di attaccare lo Stato attraverso omicidi di soggetti appartenenti alle Forze dell’ordine, in particolare alla polizia penitenziaria, fino ad arrivare agli attentati di Roma, Firenze e Milano. Qualche giorno dopo l’agguato, l’omicidio di Scopelliti venne rivendicato dalla sigla “Falange armata” con la quale sono stati rivendicati «i fatti delittuosi più gravi commessi in Italia fra il 1990 e il 1994». Una rivendicazione che rappresenta «il fil rouge che lega tali fatti, collegati da un’unica ispirazione eversiva di minaccia allo Stato». (m.ripolo@corrierecal.it)
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