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COLD CASE

‘Ndrangheta, il doppio martirio di Celestino Fava: senza giustizia dopo quasi trent’anni

A “Telesuonano” la storia del 22enne vittima innocente di mafia a Palizzi. L’appello della madre Anna e di Mimmo Nasone (Libera): «Chi sa parli»

Pubblicato il: 07/03/2024 – 6:45
‘Ndrangheta, il doppio martirio di Celestino Fava: senza giustizia dopo quasi trent’anni

Una giornata come tante, che inizia in modo sereno e si trasforma in tragedia, dando vita a un dolore che ancora oggi – dopo quasi trent’anni – non si lenisce e anzi aumenta con la richiesta, inevasa, di verità e giustizia.
Inizia con il racconto di una mamma, Anna Zirilli, che descrive il suo Celestino con toni insieme teneri e tristi a Telesuonano, nel corso dell’intervista di
Danilo Monteleone e Ugo Floro andata in onda ieri sera su L’altro Corriere Tv. Un «esercizio della memoria» ma anche una rinnovata «domanda di verità e giustizia» dopo la fine prematura di uno straordinario giovane dal cuore d’oro, Celestino Fava, che il 29 novembre 1996 trovò un’orribile morte nelle campagne di Palizzi, ad appena 22 anni: trucidato con un amico in un agguato di stile mafioso.
Un’occasione per ricordare e rimettere in moto la macchina della verità, con Libera e il migliore associazionismo rappresentato in studio anche dalla autorevole voce di Mimmo Nasone.

Il dramma nelle parole della madre

«La giornata inizia in modo sereno, come sempre – racconta Anna Zirilli –. Mio figlio esce per una passeggiata con l’amico Nino, decide di andare al posto del fratello, si prepara e parte. Celestino era un tipo puntuale, quindi a mezzogiorno non vedendolo arrivare mi preoccupo, e mio marito ancora di più. Dopo l’una mando mio marito dove i due ragazzi potevano trovarsi ma lui non vede né la macchina né il trattore. A casa dell’amico trova solo il trattore ma non la macchina, così mi preoccupo ancora di più. Si saranno fatti male… saranno in ospedale… L’ansia sale. Arriva il postino che cerca mio marito, lui aveva la proprietà dove è accaduto il fatto dunque già sapeva. Io intanto stavo già sentendo le sirene dell’ambulanza. Più tardi arriva mio marito e mi dà la conferma: mi sembra impossibile. Così è iniziata la nostra tragedia»
Quel tipo di morte – da vittima innocente di ‘ndrangheta, una delle oltre 1000 dal 1960 conteggiate da Libera – quanto ha aggravato il dolore?
«Io all’inizio non dicevo nemmeno come fosse morto mio figlio per come mi sembrava una cosa strana. Sapendo chi era, non avrei creduto neanche ad un angelo che mi avesse detto che le cose sarebbero andate così. Celestino era solare e libero, amava la vita, sosteneva gli ultimi. Il gemello Antonino adesso vive e lavora a Milano, facevano tutto assieme, anche la barba: li divideva solo il militare e la fede calcistica, Celestino era interista come il padre mentre il fratello è juventino… Dopo la ragioneria Celestino ha fatto il militare, avrebbe voluto iscriversi all’Unical ma preferiva lavorare, voleva imbarcarsi. Andava sempre di fretta, voleva dormire poco. Vedevamo i film insieme e voleva essere coccolato. Era affamato di vita e aveva tanti amici».
Il racconto si fa intimo. Come il preavviso quando sta per avvenire la tragedia, il cuore della mamma trova anche delle spiegazioni che non sempre sono verità giudiziarie: a quali verità di madre è arrivata Anna Zirilli? «Forse – risponde – quel giorno Celestino ha visto troppo, ha riconosciuto gli assassini andati per uccidere l’amico, avrà sentito le urla e gli spari e stava per scendere dalla macchina quando gli hanno sparato. Gli assassini erano della zona. Nessuno ha parlato e nessuno sa niente, però. Si parlava di una Jeep, una moto, poi tutti si sono chiusi a riccio: anche il magistrato, Francesco Cascini che allora aveva 25 anni, ha ammesso tante cose. Anche lui ha sbagliato ma cercava aiuto».

Anna Zirilli

Una famiglia distrutta

Resta il dramma che squassa la quotidianità di un nucleo familiare. Dopo 28 anni il dolore è ancora vivo.
«Non siamo più la famiglia di una volta. Niente gioia, niente feste… Per dodici anni siamo stati chiusi in casa, in un angolino: uscivamo solo per andare al cimitero. Poi, grazie a Libera, abbiamo superato il silenzio della comunità, un silenzio che mi ha logorato. A Palizzi ci fu soltanto una via crucis e venne Raiuno, non ricordo altro. Ricordo che chiedevo ai miei familiari di andare in televisione e raccontare quello che era accaduto, loro dicevano che dovevo andare io ma non ne avevo la forza…».
La mancanza dei genitori per Celestino è la stessa che prova il gemello: «Antonino – racconta Anna Zirilli – oggi soffre più di allora, la mancanza si è fatta ancora più forte. Il lungo silenzio è stato un dolore paralizzante. Oggi Celestino sarebbe come lui, quando vedo arrivare Antonino quel senso di vuoto e quel dolore si fanno ancora più forti però è come se vivesse in lui, in simbiosi, vista la somiglianza. Celestino è la metà mancante».
Rispetto a quei giorni di fine 1996, non è cambiato lo strazio per una giovane vita strappati agli anni più belli ma gli amici di Celestino se ne sono andati tutti da Palizzi. E se a Trento prima un presidio e poi una targa hanno tenuto e tengono alto l’esempio di Celestino Fava, dopo tanti anni anche la sua Palizzi lo ricorda nella villa comunale.   

Nasone: «Chi sa qualcosa parli»

Mimmo Nasone di Libera Calabria tiene il punto: «L’archiviazione del caso nel 2002 è come una seconda morte, la nota dolente della storia di Celestino e dell’80% delle 1070 vittime innocenti che abbiamo nell’elenco aggiornato ViviLibera. Non hanno ancora giustizia, è una piaga che si potrà sanare soltanto se ci sarà un risveglio delle coscienze: don Ciotti ripete sempre ai genitori di Celestino e ai familiari che “la verità cammina nei vari paesi” e fino a quando non si rompe il muro dell’omertà le comunità rimarranno la quarta tipologia di vittime innocenti di ‘ndrangheta. Celestino non se l’è cercata, come si dice, ma quella mattina è uscito per una normale passeggiata. Potrebbe succedere a chiunque, anche se oggi la ‘ndrangheta ha cambiato strategia ed è sempre più sommersa e subdola, fa meno chiasso possibile al netto di casi recenti come i parroci del Vibonese e il vescovo».
L’omertà è purtroppo un elemento decisivo in questa come in altre storie: «Qualche ipotesi è stata sul tavolo ma può essere stata costruita ad arte da chi aveva interesse a depistare: quando la ‘ndrangheta decide di uccidere qualcuno deve esserci l’elemento della paura di un tradimento o una testimonianza oppure di compiti assegnati e non rispettati o ancora di favori non restituiti. La certezza è che l’obiettivo non era Celestino. Non amava andare in campagna a lavorare. L’obiettivo era Nino Muoio, anche lui non era un ragazzo chiacchierato, faceva volontariato con Celestino nella comunità che avevamo fondato in parrocchia, Casa Emmaus. Nino era sceso dalla macchina per liberare le pecore dal recinto quando Celestino ha sentito qualcosa e ha cercato di scendere per andare verso l’amico però è stato freddato quando ancora era dentro la jeep. Probabilmente erano più persone. Le indagini non hanno chiarito nemmeno il ruolo di Moio all’interno della criminalità, magari si sarebbe potuta fare più chiarezza invece si ha avuto troppa fretta di archiviare».
Ma poi le voci si sono accavallate: «Si parlò di traffico di droga, qualcuno aveva messo in giro l’ipotesi di una punizione di gente di un paese vicino, perché Celestino andava a caccia di cinghiali e li ostentava nelle altre comunità. Voci forse per spostare l’attenzione, mentre si poteva risalire alla verità da qualche dettaglio. Quando arrivai da Reggio per benedire le salme vidi la scena del delitto: non era protetta, credo ci sia stata un po’ di leggerezza. Questo lascia una grande amarezza».

L’omertà e il silenzio

«Il silenzio sceso sulla vicenda conferma quanto sostiene Libera da sempre, e cioè che è stata gente del posto. – incalza Nasone – Omertà totale figlia della paura, che forse bisogna anche comprendere perché si tratta di gente che non fa sconti… Ripeto: la comunità è la quarta vittima della ‘ndrangheta, che si acclara ancora di più quando ci sono omicidi. La nostra speranza e la nostra azione non è fare memoria fine a se stessa ma restituire verità e giustizia, chiarezza che può servire ad elaborare il lutto, oltre che a Celestino e alla comunità, per dire noi “siamo da questa parte”. Il 20% di casi risolti è merito o degli inquirenti – che oggi hanno mezzi più evoluti di anni fa – o di pentiti o di segnalazioni anonime, fatte in coscienza senza bisogno di essere cristiano, è il minimo che si possa fare per i familiari».

Dare una risposta al dolore

«Il paradosso per i genitori è che nel momento in cui si dovesse sapere il nome o i nomi degli assassini questo non placherebbe il dolore, lo aumenterebbe ancora di più perché Celestino era un ragazzo d’oro, mai minimamente sfiorato da nulla. Io lo conoscevo molto bene. E conosco molto quelle comunità essendovi stato parroco dal 1979 al 1987: nel 1983 proprio a Palizzi Marina nasce la prima struttura di accoglienza per malati mentali chiusi dentro il manicomio. È una comunità aperta e solidale, che per 5 anni si tassa per mantenere 12 malati che vivevano nella parrocchia: una cosa rivoluzionaria tanto più per quei tempi. Libera non esisteva quando nel 1983  organizzammo un comitato popolare di lotta alla mafia, dopo che qualcuno diede alle fiamme uno scuolabus perché il Comune non aveva assunto chi era stato raccomandato dal capomafia: 30 bambini delle periferie restano per 3 mesi senza accesso alla scuola. Ci fu una ribellione sistematica della gente di Palizzi, non una marcia ma assemblee popolari ogni settimana per dire “guardate che la mafia fa male e distrugge la libertà”. Finché sono rimasto lì abbiamo portato avanti questi discorsi. Quando si pone poca attenzione alla presenza della criminalità organizzata, a maggior ragione in caso di omicidi, se non c’è chi si batte e anima il territorio – non eroi solitari – le cose vanno a finire così. Peccati di omissione, nessuno confessa, non si può tacere per vent’anni questa verità che passeggia per le vie del paese, come in tutti i 1070 casi che conosciamo: nel 2007 la famiglia Fava partecipa per la prima volta, a Polistena, alla giornata nazionale della memoria – quella che ora faremo a Roma – e oggi ancora semina quel dolore. Questo peccato di omissione si può riparare, anche anonimamente, per orientare e indirizzare. Rinnovo questo appello con fiducia: don Calabrò disse – nell’omelia fatta per la liberazione del piccolo Vincenziano Diano il 2 agosto 1984 – che i mafiosi non sono uomini ma bestie, e chiese scusa alle bestie, ma ci insegnava che anche nel cuore dei mafiosi, in quel caso sequestratori, c’è un minimo di buona coscienza viva che pulsa e non muore mai: va alimentata, a volte basta una scintilla. Se io fossi l’assassino di Celestino come potrei oggi accarezzare i miei figli o abbracciare mia moglie o camminare per Palizzi dopo aver sentito parlare la mamma Anna? Una lettera, un’indicazione può salvare l’anima se si è credenti, come molti mafiosi si vantano di essere: la chiesa non vuole i vostri soldi». La paura può diventare coraggio.

La spoon river degli innocenti

Infine Nasone fornisce qualche numero: «Delle 1070 vittime censite da Libera 204 sono calabresi, ai quali si aggiungono i 94 di Steccato di Cutro morti nel naufragio l’anno scorso. 298 vittime innocenti: il 2° e il 3° della lista sono due preti di Reggio Calabria caduti nel dimenticatoio, ovvero don Giorgio Fallara e don Antonio Polimeni, uccisi perché hanno incoraggiato il possidente di un uliveto a denunciare chi sistematicamente gli rubava le olive. Tra queste 298 persone ci sono 33 minorenni, 52 imprenditori e operai, 131 solo nel Reggino. Invito tutti a segnalare a Giuseppe Borrello e ai presìdi e canali di Libera, anche nazionali, casi di vittime innocenti di mafia che ancora non si conoscono. È il minimo di dovere che abbiamo».

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