SAN GIOVANNI IN FIORE Ieri una folla commossa ha partecipato alle esequie di Giuseppe Oliverio, nella chiesa di Santa Lucia a San Giovanni in Fiore. Chiamato «Peppino», Oliverio era un maestro elementare coltissimo come Leonardo Sciascia e, per rubare una definizione di Croce riguardo a Baudelaire, un «poeta di specie rara o, meglio, della rara specie dei poeti, sempre rari».
Nella seconda parte del Novecento, Oliverio insegnò per una quarantina di anni nella «Primaria», come oggi si chiama il quinquennio della prima istruzione obbligatoria, termine che lo infastidiva quando discuteva della scuola, che a suo avviso doveva «accendere le passioni culturali e civili» ma era ormai «ridotta a cumulo di carte e formule vuote, specchio dell’ipocrisia del potere, responsabile della fabbrica dell’ignoranza».
Oliverio non era mai tenero nel mestiere. Anzi, era rigido, severo ma autorevole. Non aveva bisogno di metodi coercitivi, punizioni esemplari, urla, ammonimenti, note sul registro. Il suo segreto didattico era racchiuso in due verbi, «dare» e «pretendere»: trasmetteva il proprio sapere senza risparmiarsi, coinvolgendo ogni allievo nella lettura ad alta voce, nell’interpretazione di «versi eterni», di «pagine sacre» della letteratura di ogni tempo.
Oliverio era empatico, riusciva a capire l’animo dei suoi studenti, di cui conosceva la psicologia, il vissuto, le paure e le capacità inespresse. Il maestro, di cui non fui alunno, aveva una voce ipnotica, che durante la lezione modulava in base alle parole e alle argomentazioni scelte, al livello di attenzione dei bambini. Soprattutto, riteneva che la classe scolastica dovesse progredire per intero e l’insegnante non potesse preferire i figli dei ricchi.
Verso la fine della carriera, Oliverio regalò ai posteri “L’Italia è una Repubblica democratica che è affondata sul lavoro”, libro sugli strafalcioni linguistici dei suoi studenti. Spiegò che a volte non corresse quegli errori ma li lasciò per via della loro potenza espressiva e forza di verità. Come nel caso della frase ripresa nel titolo oppure di «il mare è una memoria d’acqua salata, alla quale non crescono né alberi né troppe». Fu una pubblicazione inedita, forse più interessante del celebre, coevo, “Io speriamo che me la cavo”, di Marcello D’Orta, perché tra l’altro contenente missive dall’estero che Oliverio aveva avuto da emigrati quando l’analfabetismo imperava, dopo la Seconda guerra mondiale. Il testo, attraverso temi, lettere e biglietti altrui, racconta il disagio, le aspettative, i timori e i sogni del popolo sangiovannese, smembrato dall’emigrazione di massa ma legato alle proprie radici sino a preservare le forme più arcaiche del dialetto, nonostante i trasferimenti negli Stati Uniti, in Canada, in Germania o in Australia.
Peppino Oliverio fu maestro e poeta. Ed è difficile distinguere, separare l’una e l’altra delle attività del suo spirito: inquieto, indagatore, solitario ma in cerca di dialoghi autentici, incessanti e mai superficiali. Era un letterato, che spaziava dalla contezza dell’universo espressivo di Dante Alighieri alla padronanza della poesia italiana ed europea degli ultimi due secoli.
Oliverio insegnava con la poesia e recitava i suoi versi, rispetto ai quali era sempre critico, dinanzi alle persone cui voleva trasmettere il proprio stupore immutato per la vita, l’umanità, la natura e la scrittura. “Scara ca truovi” e “L’ora dorme nel seme della mela” sono le sue raccolte di poesie più note, rispettivamente nel dialetto di San Giovanni in Fiore e in italiano. Ma il poeta ebbe una produzione ampia e complessa, che include opere come “Troppo breve è la notte”, “L’Ellisse”, “Firalazzu”, “Il sogno di Icaro”, “Patruni e sutta”, “Gioacchino da Fiore, il Messaggio”.
Da pensionato, Oliverio era solito incontrarsi con suoi allievi, per esempio con l’artista Massimo Gentile, e recitare insieme a loro, come il professor Keating del film “L’attimo fuggente”, brani della propria produzione poetica e letteraria, in un contesto – anche a livello locale – sempre più segnato dall’omologazione, dalla noia, dalla fretta della contemporaneità.
Talvolta il poeta se ne stava immerso nella sua dimensione artistica e filosofica all’interno della propria casa di campagna «color pelle di luna», lungo la strada da San Giovanni in Fiore per Savelli, vicino alla fontana di “Jazzu”, toponimo coincidente con il soprannome familiare. Il suo mondo era uno scrigno di infinito: la lettura, la scrittura, lo studio, l’ispirazione nel silenzio, l’incontro con gli amici, l’amore per la famiglia e la continua ricerca del senso dell’esistenza anche dopo la morte; laico come Ugo Foscolo, dubbioso come Torquato Tasso e rinnovato credente come Alessandro Manzoni o Gabriel Marcel.
Oliverio è stato un lettore acutissimo, un divoratore di libri. Se n’è andato un intellettuale di raro spessore che da un angolo del pianeta, anche grazie al sostegno della moglie Leda Gentile, maestra elementare e donna di grande spiritualità, ha saputo parlare dell’uomo a ciascun uomo, senza infingimenti, doppiezze e interruzioni. Soprattutto oggi, in presenza di un sistema culturale che tende a omologare il pensiero e a sopprimere differenze e dettagli, questo poeta calabrese va ricordato, valorizzato e studiato a lungo nelle scuole.
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