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l’intervista

«Sergio Cosmai fu lasciato solo dalle istituzioni. Aveva contro tutta la città di Cosenza»

Il racconto al Corriere della Calabria di Domenico Mammolenti, negli anni ’80 stretto collaboratore del direttore del carcere ucciso dalla ‘ndrangheta

Pubblicato il: 10/03/2024 – 7:00
di Francesco Veltri
«Sergio Cosmai fu lasciato solo dalle istituzioni. Aveva contro tutta la città di Cosenza»

COSENZA Sergio Cosmai nel 1985 aveva 36 anni. Nato a Bisceglie, tre anni prima, dopo Crotone e Locri, era stato mandato a Cosenza per dirigere il nuovo carcere cittadino. Una brutta gatta da pelare per un giovane funzionario dello Stato piombato in una realtà complessa e in cui i privilegi, gli accordi sottobanco e le omertà diffuse, in qualunque ambito fossero stanziati, erano difficili da scardinare. Venne ucciso in un pomeriggio di marzo di 39 anni fa, in pieno giorno, in pieno centro cittadino, a pochi mesi dal suo trasferimento. Sapeva bene di essere sopportato, ma mai avrebbe immaginato di fare quella fine.
La sua fu un’esecuzione barbara, proprio come in quegli anni accadeva in Sicilia e come ancora si sarebbe verificato con gli omicidi di Rosario Livatino, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Un messaggio chiaro, alla luce del sole, da lanciare allo Stato (o alla sua parte buona) e all’intera comunità cosentina: chi si mette contro il malaffare e la criminalità, chi prova a cambiare le cose qui non ha lunga vita. Domenico Mammolenti in quegli anni era uno stretto collaboratore di Cosmai. Appena quest’ultimo venne nominato direttore dell’Istituto penitenziario cosentino, Mammolenti gli si affiancò come collaboratore di fiducia, nell’attività amministrativa contabile.
«L’ultima volta che l’ho visto – ci racconta – è stata la sera prima dell’agguato mortale. Ricordo che stavo facendo gli straordinari, abbiamo chiuso insieme l’ufficio e ci siamo salutati dandoci appuntamento all’indomani, dopo la sua missione nel carcere di Vibo Valentia. Era sereno, tranquillo, oppure era bravo a non lasciar trasparire alcuna preoccupazione. Ciò che accaduto non se lo aspettava nessuno, lui per primo».

L’agguato mentre stava andando a prendere la figlia a scuola

Alle 10.30 del 12 marzo 1985 Sergio Cosmai si trova già a Cosenza. È rientrato di corsa in città con l’automobile di servizio. Arriva da Vibo Valentia dove in mattinata doveva effettuare un’ispezione nella Casa circondariale di cui è direttore reggente. Ha anticipato il suo rientro perché sua moglie Tiziana, incinta al settimo mese e alloggiata in un appartamento della struttura penitenziaria di via Popilia, non si è sentita bene. Rientrato l’allarme, intorno alle 14 Cosmai si mette alla guida della sua macchina, una Fiat 500 di colore giallo, in direzione Commenda di Rende per andare a prendere la figlia Rossella nella scuola materna “De Vincenti”. Sta percorrendo via Bosco De Nicola quando viene affiancato da un’automobile, una Mitsubishi verde con a bordo due persone. Uno dei due tira fuori dal finestrino una pistola calibro 38 e lascia partire il primo colpo che non va a segno. Cosmai comprende subito ciò che gli sta per accadere e prova a fare marcia indietro, ma a questo punto parte una raffica di altri colpi diretti tutti verso la Fiat 500 del funzionario. Uno di questi lo colpisce alla testa. Perde subito il controllo della sua automobile e finisce la sua corsa andando a sbattere contro un palo dell’illuminazione. È già in condizioni gravi, ma il killer non è sicuro di aver concluso il suo compito: scende di corsa dal suo mezzo, raggiunge l’obiettivo e, prima di fuggire, gli scarica addosso altri proiettili, in tutto alla fine saranno undici. Sergio Cosmai, originario di Bisceglie, morirà il giorno dopo, durante un viaggio disperato verso l’ospedale di Trani. Oltre alla moglie Tiziana Palazzo, lascia la figlia Rossella di quasi tre anni e il piccolo Sergio, nato un mese dopo la sua morte.

«Caro Mimmo, non serve la pistola. Stai attento»

Domenico Mammolenti oggi è un dirigente in pensione ma per tantissimi anni è stato Direttore amministrativo-contabile della Casa circondariale di Cosenza. Il suo ricordo di Sergio Cosmai resta vivo e commosso. «Anch’io andavo spesso in missione insieme a lui a Vibo – ci dice – e ricordo che in più di uno di quei viaggi, proprio rientrando in città e passando da quella strada che oggi porta il suo nome e costeggia le casermette, ebbi la sensazione che fossimo seguiti da una macchina. In quegli anni era impossibile ipotizzare un agguato, non avevano mai sparato a un direttore di carcere. Nonostante ciò, un giorno gli chiesi come mai non portava la pistola con sé. Lui mi rispose: “Caro Mimmo, non serve la pistola, qui non c’è pericolo. Tu la hai?”. Io gli dissi di sì e che nel caso sarei stato pronto a usarla. Cosmai allora, con fare paterno, mi disse: “Stai attento, non è un giocattolo, hai una famiglia”. Io allora avevo 27 anni, lui circa dieci più di me. Non avevamo macchine blindate, ne arrivò soltanto una dopo quell’evento drammatico, una Alfetta bianca».
Poco dopo le due del pomeriggio di quel 12 marzo, Domenico Mammolenti com’era abituato a fare, stava rientrando a casa per la pausa pranzo. «Appena aprii la porta – evidenzia – feci giusto in tempo a poggiare la pistola su un tavolino all’ingresso che mi chiamarono dal carcere per dirmi ciò che era accaduto. Riattaccai, chiamai mia moglie, insegnante, chiedendole di occuparsi lei dei figli, ripresi la pistola e tornai di corsa in Istituto. Lì trovai una situazione in subbuglio, ci furono momenti concitati, drammatici, surreali, tutti gli agenti erano già usciti sul territorio per attivare i posti di blocco. Rimasi tutta la notte nella struttura, ciò che ci premeva maggiormente era non far sapere nulla a Tiziana, la moglie del direttore, considerato il suo stato interessante. Evitammo che guardasse la televisione, arrivò anche mia moglie con mia figlia per stare insieme a lei e alla piccola Rossella. La mia famiglia aveva creato con i Cosmai uno splendido rapporto di amicizia, anche perché le nostre figlie erano coetanee, avevano entrambe tre anni, una era nata a maggio, l’altra a luglio. Ma in realtà eravamo tutti sconvolti da ciò che era accaduto. In quegli anni stavamo sempre insieme, mattina e sera, il direttore aveva creato un clima molto bello, sereno, tutti gli agenti gli volevano bene perché lui li proteggeva. Spesso organizzava delle feste con le mogli e i figli dei dipendenti, voleva far comprendere loro l’importanza e la delicatezza del nostro lavoro. Aveva creato la squadra di calcio, giocava a ping pong, a carambola, cenavamo spesso insieme durante le feste. Di quella notte ricordo il timore dei detenuti, avevano paura che gli agenti sfogassero la rabbia su di loro».

«Dava dignità ai detenuti, di fronte alle leggi dello Stato non esistevano né familiari né amici»

«Con Cosmai – rivela ancora Mammolenti – uscivamo spesso insieme con le nostre famiglie su corso Mazzini. C’è un episodio in particolare a cui penso sempre. Eravamo all’altezza della Bnl e provai a parlargli di una pratica di lavoro. Lui mi bloccò subito dicendomi: “Mimmo, oggi siamo con le nostre famiglie, rilassiamoci. Domani in ufficio ne parliamo”. Era un uomo di grande spessore umano ma quando c’era da lavorare, era serio e professionale come pochi. In fatto di lealtà, onestà e professionalità, i migliori funzionari dello Stato con cui ho lavorato nella mia lunga carriera sono stati Sergio Cosmai e Gianfranco De Gesu. Proprio quest’ultimo, giovanissimo neo vincitore di concorso da direttore, fu consigliato da Cosmai a non farsi assegnare subito nella sua città, Cosenza. Insomma, voleva proteggerlo. Ancora oggi il direttore De Gesu ammette di aver fatto carriera e di essersi salvato grazie ai consigli di Cosmai».
«Faceva rispettare le regole – afferma ancora Domenico Mammolenti –, era il primo ad arrivare in ufficio e l’ultimo ad andare via. Di fronte alle leggi dello Stato non esistevano né familiari né amici. Rispettava le regole e soprattutto le persone, i detenuti in primis. Dava loro la dignità che gli veniva riconosciuta dalla Costituzione. La sua funzione si basava sulla rieducazione del detenuto».

«Con lui al vertice della struttura si acuì lo scontro tra il potere criminale e il potere dello Stato»

Il passaggio dal carcere di Colle Triglio a via Popilia fu duro proprio da quando Cosmai prese la direzione dell’Istituto. «Ancora la costruzione della struttura non era stata completata – continua Mammolenti – c’erano le pratiche degli espropri da compilare e poi c’erano i boss abituati da sempre a comandare. Cosmai gli si mise subito di traverso per contrastare la loro arroganza che andava a discapito dei detenuti più deboli. Ad esempio, quando si dovevano assegnare i detenuti per i lavori da svolgere quotidianamente, il boss sceglieva i suoi uomini per fargli guadagnare qualche soldo in più. Cosmai bloccò questa consuetudine dando il lavoro a chi effettivamente ne aveva bisogno per aiutare a casa le famiglie. Insomma, con lui al vertice della struttura si acuì lo scontro tra il potere criminale e il potere dello Stato».
L’organizzazione interna del carcere di Cosenza venne totalmente stravolta: sorveglianza costante per evitare ogni sorta di attività illecita come il traffico di droga e di armi e trasferimento di alcuni detenuti per renderli meno forti sul territorio. A tal proposito instaurò una proficua collaborazione con due alti funzionari della Questura di Cosenza dell’epoca: Salvatore Lanzaro e Nicola Calipari (quest’ultimo ucciso nel 2005 da soldati statunitensi in Iraq nelle fasi successive alla liberazione della giornalista Giuliana Sgrena). Inoltre, Cosmai disse no alla concessione supplementare dell’ora d’aria chiesta dalla maggior parte dei detenuti che, di conseguenza, protestarono. La protesta fu bloccata sul nascere e Cosmai, pur aprendo a un incontro con una rappresentanza dei detenuti, rifiutò la proposta del boss Franco Perna (a cui aveva anche fatto revocare la semilibertà) di andarlo ad incontrare. Quella decisione decretò la sua condanna a morte. «Con Perna ebbe un duro scontro davanti a tutti i detenuti. Cosmai disse: “Se vuole parlarmi – ricorda ancora Mammolenti – è lui che deve venire da me e non il contrario. Io rappresento lo Stato”. Ma in realtà in quegli anni aveva contro tutta la città di Cosenza. Era un uomo dello Stato lasciato solo dalle altre istituzioni dello Stato, sia politiche che amministrative. La politica era contro di lui, non gradiva quel modo rigido di approcciarsi al suo incarico. Nel 1983 o 1984 il Ministero mandò ingenti fondi per pagare gli espropri ai proprietari dei terreni circostanti al carcere perché l’obiettivo era quello di creare una extra-cinta che si estendesse oltre il muro di cinta per evitare che i familiari si avvicinassero troppo alla struttura per colloquiare con i detenuti. Questi soldi dovevano essere spesi dal Ministero dei Lavori Pubblici insieme agli Uffici tecnici del comune di Cosenza. Cosmai si impegnò molto per arrivare a questo risultato, ma alla fine non ebbe alcuna risposta, fu ostacolato e quei soldi tornarono indietro. A pensarci oggi, già allora il Comune di Cosenza in quell’area aveva un progetto che si è realizzato successivamente: sono state costruite strade, continuano a spuntare palazzi, una vera e propria speculazione edilizia in cui l’ostacolo era ed è tutt’oggi il carcere. In quegli anni – prosegue l’ex dirigente – Cosmai ebbe scontri anche con la magistratura di sorveglianza, in sintesi non era ben visto neanche da chi avrebbe dovuto stare dalla sua parte».

I processi e la condanna. «La criminalità venne a sapere del suo trasferimento e decise di ucciderlo»

Dopo la condanna in primo grado all’ergastolo degli assassini di Cosmai nel processo celebrato in Corte d’Assise a Trani, in Appello verranno tutti assolti per insufficienza di prove. Due di loro, però, diventeranno collaboratori di giustizia ricostruendo nei minimi dettagli ciò che accadde quel pomeriggio del 1985. Nel 2008, nel processo in Corte d’Appello a Cosenza, il mandante dell’omicidio Franco Perna sarà condannato all’ergastolo.
«In quella circostanza – spiega ancora Mammolenti – il lavoro svolto dal procuratore Mario Spagnuolo fu decisivo e rese giustizia alla famiglia Cosmai». «Il provvedimento di trasferimento di Cosmai al carcere di Trani – ci tiene a rivelare oggi Mammolenti – era ormai pronto, era questione di pochi mesi. I suoi assassini, non so come, vennero a sapere questa notizia riservata e lo uccisero prima che potesse lasciare Cosenza».
A distanza di quasi 40 anni da quel tragico evento, il ricordo del direttore che scelse con coraggio di non piegarsi alle logiche mafiose è ancora vivo non solo in Calabria. La Casa circondariale della città bruzia e Libera Bisceglie portano il suo nome. Nel 2017 al direttore Cosmai che sua moglie Tiziana Palazzo ha sempre definito «un puro», è stata conferita la Medaglia d’oro al Merito Civile alla Memoria. «A distanza di più di trent’anni – dice in conclusione Mammolenti con rammarico – nonostante le istanze inoltrate, Cosmai non è stato ancora riconosciuto come una vittima di mafia, ma solo del dovere. Sergio Cosmai era un grande uomo, un funzionario onesto, incorruttibile, rigido e sensibile, e non sopportava le ingiustizie. E proprio per questo lo hanno eliminato». (f.veltri@corrierecal.it)

Nella foto di copertina Sergio Cosmai indossa un abito azzurro. Alle sue spalle è seduto Domenico Mammolenti

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