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l’intervista

Giuseppe Aloe e «l’altalena della ragione e della follia»

Scrittore e giornalista cosentino, ha pubblicato sette romanzi. Vive a Milano, dove dirige il bisettimanale di economia del turismo “Travel quotidiano”

Pubblicato il: 11/03/2024 – 13:00
di Concetta Guido
Giuseppe Aloe e «l’altalena della ragione e della follia»

È più difficile essere genitori o figli? In “Le cose di prima”, l’ultimo romanzo di Giuseppe Aloe, il protagonista, Martin, è un professore che è sopravvissuto a un’adolescenza di sofferenza e follia, in una famiglia tormentata fino all’estremo. Non c’è modo di ricacciare in un fondo irraggiungibile le emozioni, le paure, quello che hai imparato da piccolo. Tutto risale a galla da adulto. Che siano esperienze terrificanti oppure no.
Giuseppe Aloe ha trascorso i suoi “anni di prima” nel centro storico di Cosenza, nella grande famiglia degli Archi di Ciaccio, in un delizioso palazzotto del Seicento di via Gaetano Argento, in cima alla salita del liceo classico Telesio. Tutti conoscevano gli Aloe nella città vecchia. Persone amatissime Ninì ed Ermanno, i suoi genitori. Alcune figure di quel vicinato si fondono nelle sue trame, anche se non hanno un’ambientazione a sud.

Cosenza, Archi di Ciaccio

Ha pubblicato sette romanzi e tre sono stati candidati al “Premio Strega”, compreso quest’ultimo, proposto da Arnaldo Colasanti. «Il tema generale – si legge nella motivazione – è la disgregazione dell’esistenza, quello specifico è lo sguardo di un bambino, oggi uomo, che ritorna in quella voragine di sofferenza in cui, tuttavia, palpita la vita».
È un pianeta letterario di scrittura raffinata, di spaesamento e commozione, quello di Aloe, con un unico filo rosso: l’altalena della ragione e della follia. In “Gli anni di nessuno” il protagonista ha trascorso l’infanzia segregato in una stanza,  in “Ieri ha chiamato Claire Moren” un uomo paga per un omicidio che non ha commesso. Amaro e toccante anche il viaggio dentro la perdita della memoria di “Lettere alla moglie di Hagenbach”. Lo scrittore cosentino ha diverse opere nei cassetti. «Ho scritto altri romanzi che non ho proposto agli editori, perché non mi piacciono e che probabilmente non pubblicherò mai». Non è intransigenza, è che alla letteratura ha dedicato una vita. «La mia vera attività è quella del lettore, io sono un lettore che ogni tanto scrive». E sotto un velo di ironia si coglie la forza di una passione enorme.
Aloe è scrittore e giornalista. Vive a Milano, dove dirige il bisettimanale di economia del turismo “Travel quotidiano”. Spesso è in Sardegna, terra d’origine di sua moglie Ilaria.

Cosa stai leggendo in questo periodo?

«“Belli e dannati” di Francis Scott Fitzgerald, “Bartleby lo scrivano” di Herman Melville»

Due classici.

«Mi interessano soprattutto le opere più importanti della letteratura, ma leggo anche altro. Un libro uscito di recente che trovo di grande inventiva è  “Atti puri” di Alice Scornajenghi. Sono storie porno distopiche, di un altro pianeta. Anche lei è di Cosenza ma non ci conosciamo, le ho fatto i complimenti sui social perché trovo il suo libro splendido».

«Preferirei di no». E’ la frase che lo scrivano di Melville ripete continuamente. Tu a chi risponderesti  così?

«Al novanta per cento delle domande che arrivano, non certo dalla vita, ma dal lavoro, quello che spesso devi fare per campare e che può anche diventare una perdita di tempo».

Nel 2011 sei stato semifinalista allo “Strega” con “La logica del desiderio, pubblicato da Perrone; poi altre due candidature con  “Lettere alla moglie di Hagenbach” nel 2020 e adesso con “Le cose di prima”, entrambi Rubbettino. Come vivi i premi?

«Mi piace partecipare. Il “Premio Strega”, in  particolare, funziona alla perfezione, nonostante sia di difficile gestione, perché la sua organizzazione è complessa. Il cinque aprile usciranno i dodici titoli della semifinale e gi autori gireranno l’Italia per incontrare i lettori, fino alla selezione della cinquina e alla finale che sarà il 4 luglio».

Sarebbe fantastico lo “Strega” 2024 a un autore calabrese.

«Se arriva sarò felicissimo, però io  ho chiaro un punto: lo scrittore deve scrivere, anzi deve leggere e scrivere, non deve essere un personaggio, entrare in una competizione mediatica. Non siamo in un reality show e non è importante la gloria. Quello è totalmente un altro ruolo».

Quanta passione per i libri è sbocciata agli Archi di Ciaccio?

«Nasce tutto lì, a Cosenza e nel mio quartiere. Già quando avevo cinque, sei anni avevo un’attrazione inspiegabile verso tutto ciò che era scritto e in un primo momento ho trovato la mia dimensione nella poesia, che poi è stata la mia forma per moltissimi anni».

Il tuo  primo libro, “Non pensare all’uomo nero… dormi”, è uscito nel 2005. Quanto tempo hai impiegato per trovare la tua “voce” di scrittore?

«Posso dire di aver impiegato quarant’anni, considerando che ho scritto la prima poesia a cinque anni e mezzo. S’intitolava “Sono stato sul fiume di Napoli”. Ricordo che la scrissi mentre mia madre stirava e fu proprio lei a venire a scuola per confermare che era mia, perché il professore non ci credeva. Poi ho pubblicato i primi racconti a quarantacinque anni. Nel frattempo ho sempre scritto, ho intere agende piene di riflessioni, racconti, storie».

Ci sono personaggi reali, del tuo quartiere di Cosenza vecchia, che hai diluito tra le tue persone letterarie?

«Sicuramente. La mia guida letteraria, diciamo così, si chiamava Alberto ed era un bravissimo vetraio. Ci fu un anno in cui perse la mamma e lo lasciò la fidanzata e questo doppio dolore lo fece uscire di testa. Alberto era un nostro inquilino agli Archi di Ciaccio, era stato diversi anni nel manicomio di Nocera Inferiore. Un uomo eccezionale con il quale conversavo spesso, diceva cose comiche ma con una saggezza di fondo che mi affascinava. Poi c’era Sigismondo, che da quando era morta la moglie stava sempre alla finestra».

Nel tuo ultimo romanzo c’è un personaggio che guarda dalla finestra.

«Ed è proprio lui, è nato dai miei ricordi di Sigismondo. Quando uscivo alle quattro, con il buio, perché magari dovevo prendere un aereo a Lamezia Terme, lo trovavo affacciato già a quell’ora: “Giusè sali, vieni che beviamo un caffè”. Mi salutava come se fosse pieno giorno».

“Le cose di prima” nasce da una vicenda tragica, l’idea ti è venuta durante il funerale di un ragazzo.

«Era un ex compagno di mio figlio Filippo. Era in carcere e in attesa di passare in un istituto minorile o in un centro alternativo, ma trascorsi tre mesi non ha retto e si è suicidato. Durante la messa il prete ha citato  l’“Apocalisse”, dove Giovanni dice che non ci sarà più la morte, non ci sarà più il dolore perché le  “cose di prima sono passate”. Io in quel momento ho preso appunti, perché ho sentito che dentro di me si agitava qualcosa; dopo un paio di settimane ho iniziato a scrivere e dopo venti giorni avevo finito».

Pochi giorni per scrivere un intero romanzo?

«E’ il mio metodo, quando ho la mia storia chiara in testa la scrivo senza interruzioni. Ed è raro che non conosca già il titolo. E’ una cosa molto strana, perché dopo che ho scritto, ho corretto, cado in letargo e nel momento in cui  mi risveglio sono pronto a scrivere qualcos’altro, però l’idea deve essere buona, il risultato deve piacermi per proporne la pubblicazione».

I tuoi romanzi sono anche un viaggio nella letteratura, da Proust, a Kafka, a tanti altri. Questa scrittura veloce, in venti giorni, in verità parte da lontano.

«Sì, parte da tutto quello che io ho letto e che mi è rimasto in mente, anche perché per fortuna ho molta memoria. Nel momento in cui tutta questa infiorescenza che è nella mia testa è formata, io ne raccolgo i frutti ed è fatta».

Secondo te chi è stato, nella letteratura, l’autore più sottovalutato e chi, invece, quello sopravvalutato?

«Il più sottovalutato è Elias Canetti che secondo me è un genio assoluto. Ha aperto nuovi orizzonti non soltanto nel romanzo, ma anche nel teatro, nella saggistica, nell’arte degli aforismi.  Io considero “L’altro processo”, in cui analizza il capolavoro di Kafka, il più bel libro del Novecento. Tra i sopravvalutati metterei alcuni autori del nuoveau roman francese come  Robbe Grillet, Claude Simon, che ha vinto anche un Nobel. Ho letto alcune cose di Simon e le ho trovate incomprensibili, forse la parola giusta è “illeggibile”. Questi autori scrivevano per non essere capiti e penso che sia eccessivo».

Torni volentieri nella tua abitazione del centro storico di Cosenza?

«Mi piacerebbe tornare più spesso. Ricordo con tenerezza i dialoghi con mio padre, scomparso a 98 anni. Mi chiamava ogni mattina e mi chiedeva “da quanto tempo non ci sentiamo?”. Quando io gli ricordavo “Aloe – perché ci chiamavamo per cognome, – ci siamo sentiti ieri”, lui rispondeva sempre: “e sì, ma ti ho chiamato io, da quanto tempo non mi chiami tu? Ieri stavo fumando una sigaretta e ho avuto un movimento interiore, ho sentito una nostalgia enorme di mio padre che mi diceva “ma da quanto tempo non ci sentiamo?”. In quell’istante ho pensato “come sarebbe bello se mi chiamasse Aloe”, mi sono commosso».

Ami la poesia di Emily Dickinson. Raccontala in una battuta.

«Per me non ha paragoni. La racconto attraverso il filosofo Emir Cioran. Durante un’intervista gli chiesero “l’uomo è buono o è cattivo?”. Lui rispose “è un abisso, l’unica persona che è riuscita ad andare più in profondità in questo abisso è Emily Dickinson”. E lo ha fatto con un’arte fulgida, irradiante, miracolosa che ti trascina con sé in questo abisso, però ha anche la forza di farti risalire dalle tenebre».

Letture da consigliare ai figli. E anche a molti genitori.

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