COSENZA Il nome di Adolfo D’Ambrosio è ritenuto appartenente all’organizzazione criminale cosentina nella quale, anche a seguito di precedenti trascorsi giudiziari, avrebbe ricoperto una posizione di vertice. Il suo “gruppo” finito al centro dell’attività di indagine denominata “Reset“, contro la ‘ndrangheta bruzia, viene analizzato nel corso di una delle ultime udienze del procedimento celebrato con rito ordinario in aula bunker a Lamezia Terme. E’ il maresciallo Alfredo Lucanto, attualmente in servizio al Nucleo Investigativo di Agrigento, a definire – in aula – i contorni dell’attività svolta sul gruppo «facente capo a Adolfo D’Ambrosio, già partecipe confederato alla omonima cosca denominata Lanzino-Ruà-Patitucci». Il momento giudicato decisivo dagli investigatori è «la scarcerazione di Adolfo D’Ambrosio, in un periodo antecedente a questa data il gruppo veniva gestito dal fratello Massimo, che ha diretto tutte le attività utili per il clan e ha intrattenuto anche rapporti con altri esponenti di spessore criminale della cosca».
E’ il 16 luglio del 2019, nell’abitazione di Massimo D’Ambrosio si tiene un vero e proprio summit di ‘ndrangheta al quale prendono parte Mario Piromallo e Salvatore Ariello. La reunion ha come scopo l’incontro con Adolfo D’Ambrosio, fratello del padrone di casa, e storico esponente del clan Lanzino «per conto del quale ha svolto mansioni da “reggente” nella città di Rende, fino al suo arresto ed alla relativa condanna per una serie di estorsioni». Fresco di scarcerazione, Adolfo D’Ambrosio vuole tornare ad assumere il ruolo di protagonista e i suoi propositi vengono cristallizzati in una intercettazione ambientale captata dai Carabinieri. I militari ascoltano con attenzione e si accorgono di un vero e proprio «corteggiamento che Piromallo mette in campo nei confronti di Adolfo D’Ambrosio per incoraggiarlo a fare gruppo con lui». In un altro incontro, datato 19 Agosto 2019, gli interlocutori intercettati, identificati e riconosciuti sono Adolfo D’Ambrosio, Ivan Montualdista, Mario Piromallo e Salvatore Ariello. I protagonisti discutono della necessità di «continuare nelle attività estorsive» e si fa «riferimento in un periodo antecedente ad un’attività estorsiva che fu fatta su una condotta del gas che andava da Tarsia a San Marco Argentano dove Adolfo D’Ambrosio riferisce di aver lui stesso perpetrato un’estorsione per circa 500 mila euro».
Il mantenimento dei detenuti rappresenta, per la mala cosentina, un argomento dibattuto nel corso di una serie di incontri al vertice. E’ materia al centro di una interlocuzione tra Mario Piromallo e Adolfo D’Ambrosio e gli altri sodali. Per il teste, il fatto rappresenta «un riscontro formidabile rispetto a quelle che sono le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giuseppe Zaffonte, Anna Palmieri, Pierluigi Terrazzano, Giuseppe Montemurro, che fanno proprio specifico riferimento alla cassa comune del clan, nonché al mantenuto dei detenuti».
L’esame del teste prosegue e si torna a parlare del sequestro di una agendina avvenuto a seguito di perquisizione nell’abitazione di Massimo D’Ambrosio (ne abbiamo parlato qui). Il maresciallo Lucanto lo considera un «libro mastro, dove venivano annotati sia i pagamenti, i ratei riferiti alle posizioni debitorie di alcuni soggetti che sono stati riscontrati anche nella rubrica del cellulare». Quindi come fonti di prova, l’accusa ritiene importanti «la rubrica di Massimo D’Ambrosio, il decreto di sequestro del contenuto telematico del dispositivo cellulare e il libro mastro».
Al capo 96 dell’ordinanza, viene contestato un episodio di presunta estorsione. L’imprenditore avvicinato dagli indagati avrebbe dovuto consegnare «per il mantenimento della tranquillità nella gestione della attività, periodiche somme di denaro non dovute, pari a circa 3mila euro su base mensile». Secondo il teste, «si fa riferimento alla richiesta da parte di Massimo D’Ambrosio di assunzioni di due dei loro ragazzi» e chiede a Montualdista di «interloquire con quelli che erano in quel momento i personaggi di riferimento che svolgevano ruoli nell’ambito amministrativo, della società di procedere con l’assunzione di due soggetti, altrimenti poi avrebbero dovuto ottemperare oltre che alle assunzioni, anche alla corresponsione di soldi». L’episodio consente al teste di riferire ulteriori dettagli del lavoro svolto nella costruzione dell’accusa riferita all’esercizio abusivo del credito da parte di clan. Si tratta di una «articolata gestione dell’attività di erogazione di prestiti e di una spiccata organizzazione e forza dimostrativa esercitata nella pretesa della riscossione». In uno dei tanti casi passati in rassegna dal teste, uno dei “clienti” – si tratta di un imprenditore rendese – sostiene di aver «venduto la casa» e «mi servono circa 2 mila 500 euro, quindi chiede altri soldi da dover dare al notaio». Massimo D’Ambrosio, nel caso di specie, «si mostra abbastanza perentorio dicendo che non gli interessava e che comunque dopo lo avrebbe raggiunto per definire la situazione». Sempre D’Ambrosio «lo minaccia dicendo che se non lo avesse ottemperato gli avrebbe preso anche le macchine». (f.benincasa@corrierecal.it)
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