ROMA «Conosco Spanò da circa vent’anni. Ci frequentiamo da qualche anno prima che si sposasse. Conosco la sua famiglia da bambino. È una famiglia di benestanti, sono i più ricchi del paese. Gestiscono i mini marchi delle sue proprietà e una tabaccheria. Con Spanò avevamo un buon rapporto di amicizia, quando andavo in Calabria, la sua famiglia mi invitava spesso a casa sua, a pranzo, a cena. Era una seconda famiglia per me».
Inizia da una lunga dichiarazione spontanea il processo per Giacomo Madaffari, alias “Baffetto” classe 1956, considerato dagli inquirenti «al vertice del locale di ‘ndrangheta di Anzio e Nettuno» al centro dell’inchiesta “Tritone” condotta dalla Dda di Roma. A febbraio di due anni fa, il blitz eseguito dai carabinieri del Nucleo Investigativo di via in Selci aveva svelato l’esistenza e l’operatività della locale di ‘ndrangheta sul litorale laziale e a sud della Capitale, infiltrandosi nelle pubbliche amministrazioni e gestendo operazioni di narcotraffico internazionale.
Madafferi, davanti ai giudici del Tribunale di Velletri, in una delle ultime udienze fa riferimento a Gregorio Spanò, classe ’69 noto come “Quattroserrande” soggetto con il quale – sempre secondo l’accusa – il presunto boss «avrebbe promosso e coordinato l’intera attività dell’associazione mafiosa». Spanò, in particolare, avrebbe avuto il compito di dirigere e organizzare le attività illecite dell’associazione, condividendo con Madaffari «le scelte strategiche da adottare e curando, personalmente, l’importazione e la gestione della sostanza stupefacente nonché del denaro, provento dell’illecita attività». Accuse che, in aula, Madaffari ha respinto. «Dopo il matrimonio di Spanò» ha raccontato ai giudici «i rapporti tra sua moglie e la sua famiglia non andavano bene, non andavano d’accordo, e mi ha chiesto di trovare un’attività commerciale nella zona dove io avevo il mio bar. In quel periodo mia cognata vendeva il forno, la sorella di mia moglie. Io glielo proposi, poi lui è venuto a Lavinio, si sono accordati al prezzo, gli ha lasciato un anticipo e dopo qualche mese si è trasferito lì». «Io l’ho sempre seguito, tutti i giorni, anche la famiglia di mia cognata, fino a che non ha imparato bene ad utilizzare il forno. Io stavo da lui tutte le volte che avevo tempo». Secondo il racconto spontaneo di Madaffari l’attività andava benissimo «mi diceva che guadagnava dai 12 ai 13 mila euro al mese. Io ero contento perché sono stato io a proporglielo. Si consigliava per qualsiasi cosa con me. Nel 2013 abbiamo costituito una società, una Srl per la vendita di piccole auto utilitarie usate e lui era l’amministratore. Io mi dedicavo all’acquisto delle auto. Nel salone c’erano tre operai. Un bravo venditore Stefano Marongio, un mio cugino acquisito Di Concetto Massimo, e una segretaria commercialista che si occupava della banca e di tutta la contabilità. Avevo un fido di banca di 40mila euro di sconto cambiale, in periodo del Covid e un fido di 50.000 euro».
«Negli ultimi anni mi ero trasferito in Umbria, a Gubbio, con mia moglie» racconta ancora l’imputato «avevamo problemi di famiglia con mio figlio, era tossicodipendente, e cercavo di poterlo portare con me, allontanarlo da Lavinio, da quella zona. Compravo le auto in Toscana, in Umbria, e poi mi organizzavo per portarle a Lavinio dove tornavo una o due volte al mese e, tutte le volte, passavo a trovare Spanò. La vendita delle auto andava benissimo, riuscivo a vendere dalle 23 ai 25 auto al mese». «Un giorno Spanò mi confida di aver trovato una microspia in macchina e che gli avevano detto che aveva una telecamera di fronte al forno. Io mi preoccupavo per lui, mi raccontava che con dei suoi amici che io conoscevo di vista, aveva importato un carico di carbone con dentro la cocaina. A questo punto ho capito perché gli avevano messo la microspia in macchina. Spanò mi aveva poi proposto di partecipare, ma io gli ho detto di no e gli consigliavo di non partecipare perché di sicuro lo arrestavano. Ma lui forse non si è potuto tirare indietro, non lo so, non l’ha fatto. Io ero molto preoccupato per lui, ma più che altro della sua famiglia che poteva pensare che fosse colpa mia».
Madaffari, nelle sue dichiarazioni spontanee, racconta di essere andato in Calabria, a Santa Cristina d’Aspromonte, e di aver raccontato tutto al fratello di Spanò per “togliersi” la responsabilità qualora venisse arrestato. «Mi sentivo con l’anima pulita verso la sua famiglia. Poi, dopo qualche mese, Spanò mi raccontava di sua volontà che era andato in un capannone, dove voi avete già ascoltato con il trojan. Stavano estraendo la cocaina dal carbone. Quando lo raccontava, eravamo nel suo forno, c’era anche suo cognato, potete chiederlo anche a lui, non sto raccontando bugie. Io e il cognato parlavamo sempre, dicevamo che per colpa di quello che faceva Spanò potevamo essere arrestati anche noi, senza aver avuto a che fare, e così è successo. Io non ho partecipato, non ho mai comprato niente. La mia colpa è stata di non essermi allontanato da Spanò».
Dal racconto spontaneo in aula di Madaffari emergono ulteriori dettagli legati alla sua famiglia. «Un giorno passavo con la macchina davanti al forno – ha detto – e ho visto mio figlio parlare con Spanò. Sono andato al bar a chiedere a mio figlio cosa facesse lì, prima non voleva dirmi niente poi mi ha detto che era andato da Spanò per farsi dare un campione di 20 grammi di cocaina per un suo amico commerciante. Io mi sono molto arrabbiato, mio figlio si è offeso e per oltre un mese non ci siamo parlati. Poi ho discusso con Spanò e ho evitato che mio figlio potesse acquistare altra cocaina da lui». «Se io avessi partecipato e avessi preso anche un solo euro non avrei mai fatto questa dichiarazione, mi sarei preso le mie responsabilità. A Santa Cristina ci conosciamo tutti, è un paese di 500 abitanti. Io d’estate nel paese restavo due o tre giorni, poi andavo al mare con i miei nipoti e mia moglie. Andavamo a Gioiosa Jonica. Il giorno che rimanevo a Santa Cristina andavo in piazza, c’era un piccolo bar, ci incontravamo tutti quelli che eravamo emigrati. Passavamo tante ore davanti al bar a raccontare quello che facevamo da bambini. Santa Cristina è un piccolo paese, benestanti, non c’è criminalità. In tutto il paese ci saranno, credo 6-7 piccoli pregiudicati. È un paese molto tranquillo. Era impossibile non incontrare Tripodi, abitava nella stessa mia via. Era una persona alcolizzata, stava sempre davanti al bar e chiedeva da bere, insomma, era impossibile evitarlo».
Nelle sue dichiarazioni, l’imputato tira in ballo altri soggetti coinvolti nell’inchiesta, definendone i rapporti. Come quelli con Domenico Romeo, soggetto più volte intercettato mentre con Gregorio Spanò facevano esplicitamente riferimento alla designazione imminente del Capo Società. Sono 175 i contatti, poi, registrati dalla pg tra lo stesso Romeo e Giacomo Madafferi. Le telefonate con mio cugino Domenico Romeo di Santa Cristina «avvenivano perché suo genero lavorava nel mio autosalone. Alla mia assenza, quando stavo a Perugia, si era appropriato di tutti i soldi che vendeva le auto, oltre 100.000 euro. Ritenevo mio cugino responsabile perché è stato lui a garantirmi suo genero. Di quei soldi ho ricevuto solo 20.000 euro». Poi parla di Rocco Cristello, «io non conosco questo cognome, sono passati vent’anni, non riesco a capire in quale anno l’avrei conosciuto. Io ho conosciuto un signore di nome Rocco che faceva da broker di auto usate in un autosalone a Cinisello Balsamo, a Milano. Non sono sicuro, mi potrò sbagliare, non ricordo altre persone di nome Rocco. Ricordo che era un calabrese, di Soverato».
«Conosco i due fratelli Metastasio, abitano a 100 metri da casa mia – racconta ancora Madaffari – hanno una ditta di movimento terra e qualche volta li chiamavo per fare qualche lavoro nel mio terreno. Mi hanno piantato circa 200 piante di olivo, i suoi figli giocavano insieme ai miei nipoti ma non conoscevo il suo passato, per me era una brava persona. Tutti e due erano bravi lavoratori». «Avevano un terreno con gli animali, mi aiutavano quando io dovevo fare i salami, erano bravi, quando compravo i maiali. Venivano a darmi una mano. Giorgio era macellaio, era molto bravo». Il riferimento, in questo caso, è a Salvatore e Giorgio Metastasio. Il primo, in particolare, avrebbe legami con l’omonima famiglia «operante essenzialmente nei comuni della fascia ionica a cavallo delle province di Catanzaro e Reggio Calabria, ma con presenze di affiliati sia nei comuni di Anzio e Nettuno, sia in alcuni centri della periferia milanese, quali Bollate e Rho» si legge nell’ordinanza all’epoca firmata dal gip del Tribunale di Roma. (g.curcio@corrierecal.it)
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