«Che di carcere non si può morire è stato già detto. Tante volte.
Tuttavia, se qualcuno evidentemente non lo ha ancora compreso, qualcun altro,
purtroppo, non lo potrà più capire. Così dicasi per Patrick Guarneri che, lo scorso 13 marzo, nel giorno del suo ventesimo compleanno, si è impiccato nel carcere di Teramo. Così per Jordan Tinti, 27 anni, che si è tolto la vita nel carcere di Pavia il 12 marzo e così per Robert, 33 anni, che lo stesso giorno si è ucciso a Secondigliano. Il contatore dei suicidi è salito ad un totale di ben 26 dall’inizio dell’anno. Allertante. Angosciante. La situazione è, con ogni evidenza, emergenziale. Ma se per molti, ormai decisamente troppi, è tardi per capire che il carcere non è un luogo in cui la restrizione della libertà equivale a privazione della dignità, per chi assiste ad un così imponente grido di allarme è finito il tempo di restare spettatori passivi. Se la parola d’ordine è sensibilizzazione, la sensibilità viene prima di tutto. Perché amareggia pensare che nel 2024 vi sia chi ritiene che la popolazione detenuta rappresenti un mondo a parte; un sotterraneo fatto di mostri, derelitti della società o, molto più semplicemente, di colpevoli che hanno meritato di essere sbattuti in una cella dove finire il resto della loro vita. Sempre che la giustizia non bussi alla porta. Da questo punto di vista, il carcere rappresenta un mondo che è parallelo al mondo della società civile, che tale è, tale deve rimanere; ma l’errore di fondo è non considerare la diretta concatenazione che, invece, esiste tra la società carceraria e i c.d. liberi. L’ulteriore errore di fondo è non considerare che, laddove una pena non sortisca il suo effetto rieducativo, voluto e richiesto espressamente dall’art. 27 della Costituzione, tali limiti non possono che ripercuotersi sulla stessa società c.d. libera, con aumento del tasso di criminalità e di recidiva. Se ciò accade, il sistema ha fallito e urgono rimedi. Che di carcere si muore ne è ulteriore conferma il numero di suicidi che colpisce il Corpo di polizia penitenziaria (ben 85 dal 2012), a riprova del fatto che le – spesso – degradanti condizioni della vita intramuraria coinvolgono l’intero sistema giustizia ed alimentano il numero delle vittime (senza distinzione) di una precaria gestione della fase esecutiva (o cautelare) della pena.
E, allora, occorre riflettere sulla dimensione del crescente fenomeno delle morti
in carcere: non sono soltanto drammi personali ma DRAMMI DI STATO.
Sovraffollamento, carenza di organico, inadeguata assistenza sanitaria (specie per il supporto psicologico, in particolar modo al momento dell’ingresso), carenza di spazi aperti di maggiore osmosi con il mondo esterno, ove poter coltivare tanto il rapporto con gli affetti quanto attività riabilitative.
Tutti fattori stressogeni, che alimentano l’isolamento del detenuto dalla società e ne esasperano la detenzione, con conseguente difficoltà di gestione da parte del personale penitenziario, sortiscono l’effetto opposto rispetto alla funzione assegnata dalla Carta costituzionale al trattamento voluto dal legislatore costituente nell’articolo 27.
Proprio in tale direzione si inserisce la recente pronuncia 10/2024, con cui la Corte Costituzionale ha consacrato il diritto del detenuto all’affettività intramuraria.
È evidente che SI IMPONE l’adozione di misure necessarie a dare attuazione ai più alti valori costituzionali di rispetto dell’uomo -in quanto tale- e dei suoi diritti fondamentali, ancorché privato della libertà personale, in accordo alla finalità di risocializzazione, che soltanto legittima la pena.
“Fermare i suicidi in carcere” è il monito che segna la manifestazione nazionale
del 20 marzo 2024, al fine di intraprendere ogni utile iniziativa tesa alla concreta prevenzione di ulteriori drammatiche vicende all’interno degli istituti penitenziari e alla pronta risoluzione di un’emergenza umanitaria a cui non possiamo, più, assistere passivamente».
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