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l’intervista

Vincenzo Chindamo: «Uccidendo Maria la ‘ndrangheta ha fallito due volte»

Le parole a Telesuonano del fratello dell’imprenditrice brutalmente assassinata nel 2016. «Mia sorella parla ancora»

Pubblicato il: 21/03/2024 – 6:43
Vincenzo Chindamo: «Uccidendo Maria la ‘ndrangheta ha fallito due volte»

LAMEZIA TERME «Maria ha sempre vissuto nel suo cammino di libertà e normalità. Era una donna di questa terra. La ‘ndrangheta nelle intercettazioni la definisce una tosta, e Maria in realtà lo era, ma a me piace sottolineare che il suo essere determinata, rappresentava quello che dovrebbe essere la normalità di ogni donna di questa terra. Maria ha scelto cosa studiare, ha deciso di laurearsi, di fare la commercialista, di sposarsi e avere tre bambini e ha anche scelto di separarsi. E lì ha incontrato purtroppo la cultura della ‘ndrangheta che nel frattempo aveva costruito intorno a lei un recinto nel quale lei si era ritrovata a vivere inconsapevolmente. È stato drammatico rendersene conto troppo tardi». Con queste parole toccanti Vincenzo Chindamo ha aperto l’appuntamento settimanale di Telesuonano, programma in onda su L’altro Corriere Tv (canale 75) condotto da Danilo Monteleone e Ugo Floro. Una testimonianza quella di Vincenzo Chindamo che arriva a pochi giorni dall’inizio del processo, dopo 8 anni di attesa, per l’omicidio della sorella Maria, imprenditrice di Laureana di Borrello, scomparsa il 6 maggio 2016 di fronte ai suoi terreni a Limbadi. Dalle inchieste successive e dalle dichiarazioni di alcuni pentiti è emerso che la donna sarebbe stata uccisa e data in pasto ai maiali. «Anche il marito di Maria – ha proseguito Vincenzo Chindamo – nel suo cammino di libertà, si è ritrovato a innamorarsi molto giovane, a volersi sposare e a far camminare la sua famiglia verso la libertà. Ma anche la sua libertà è stata contenuta evidentemente da un padre padrone, da una famiglia che aveva costruito intorno a lui un determinato metodo di comportamento. Ci hanno raccontato che all’annuncio di separazione di Maria, Nando (Punturiero, ndr) soffriva tanto perché veniva affiancato da amici e parenti e dal padre in particolare che gli dicevano “tu non sai tenerti la moglie”, “tu devi reagire”, “tu che uomo sei?”. Nando invece era un vero uomo, si assumeva le sue responsabilità e certamente, seppure a malincuore, avrebbe permesso il percorso di libertà di Maria. Ma questa mentalità di ‘ndrangheta violenta e patriarcale, ha pressato talmente forte quest’uomo nel dover fare una cosa che lui non avrebbe mai fatto, tanto da ammalarsi di una depressione profonda fino ad arrivare al suicidio. E Maria lì ha avuto contatto con tutto questo perché da lì ad un anno, ha passato momenti estremamente difficili. Quella cultura di ‘ndrangheta si è riversata su di lei, pressandolo e ostacolandola nel suo cammino di libertà. Noi la vediamo sempre nelle immagini con quel sorriso che ti conquista, Maria era così. Ma quell’anno quel sorriso l’aveva perso».

Il doppio fallimento della ‘ndrangheta

«Maria leggeva i fatti come possiamo leggerli in tanti – ha spiegato Vincenzo Chindamo – come li abbiamo letti noi per tanti anni secondo un nostro codice di lettura. Aveva annunciato una separazione, il marito era caduto in depressione, era stato portato alla depressione e si è suicidato. E la famiglia aveva dei risentimenti nei suoi confronti. Basta questo per pensare alla propria incolumità, al pericolo? Maria pensava di no. Come me. E poi Maria aveva un contorno di amici e amiche, li ha sempre avuti, ce l’ha tuttora. Quando fa il compleanno, gli auguri arrivano a me dalle sue amiche, dai suoi amici. Il mio telefono squilla ed è pieno di messaggi».
La morte di Maria Chindamo riguarda sicuramente una singola persona e investe una singola famiglia, ma mette sul tavolo della riflessione il concetto di libertà che riguarda ciascuno di noi. «Faccio una riflessione – ha evidenziato Vincenzo Chindamo – provando ad uscire dagli stereotipi della ‘ndrangheta che comanda e che si prende quello che vuole, un’idea iconica questa amplificata a volte dalle serie televisive e quant’altro. La ‘ndrangheta voleva la libertà di Maria perché voleva impadronirsene per impedire questo cammino, soprattutto in ambito familiare. Dall’altra voleva le sue terre, perché era il pezzettino che mancava per completare un puzzle di possesso totale di un territorio. Beh, è stato un fallimento. La vita di Maria purtroppo è stata portata via, ma a distanza di otto anni, non riescono a fermare mia sorella che continua ancora a parlare e a camminare. Io sono stato a Milano alla prima di una rappresentazione teatrale in cui l’interpretazione data a Maria non era quella della vittima morta a terra, ma era di una Maria viva che parlava, che diceva “io parlo ancora, io sono libera”. Anche le terre parlano. Le volevano e hanno fatto fare questa fine orrenda a Maria per poter diventare proprietari. Fallimento numero due: quelle terre sono ancora azienda agricola Maria Chindamo, sono controllate da un sistema di videosorveglianza che ha il sorriso di Maria Chindamo con la scritta “Controlliamo noi le terre di Maria” e le gestisce una cooperativa che si chiama Goel che si oppone fortemente alle logiche di ‘ndrangheta. Anche questa è la ‘ndrangheta: feroce, potente, ma fallimentare». Ogni 6 maggio, davanti a quella stradina in cui è scomparsa Maria Chindamo, arrivano tantissimi giovani sorridenti, messaggi, testimonianze. «Avrebbero voluto metterla a tacere – ha detto Vincenzo Chindamo – ma Maria ancora riunisce delle persone proprio lì, su quel luogo che doveva diventare per Limbadi e per il territorio intero la bandiera nera del terrore della ‘ndrangheta. Oggi quel luogo è una bandiera colorata della rinascita e della speranza delle persone. E Limbadi, che è il territorio colpito da tutto questo, si è costituito parte civile nel processo. Limbadi ha intitolato una strada a Maria Chindamo, perché Maria Chindamo rappresenta in quel territorio non l’emblema della violenza della ‘ndrangheta, ma l’emblema dell’esempio di libertà e di riscatto di un territorio intero. E questo, oggi, in una Calabria forse più matura per capire certe cose, è un passo estremamente importante».

Il muro di silenzio da abbattere

Ma come sta vivendo Vincenzo Chindamo questa notorietà non voluta e l’onere e l’onore di far conoscere ai giovani la storia di Maria Chindamo? «È chiaro che non avrei voluto affrontare questi argomenti – ha affermato – soprattutto in pubblico, condividere questo dolore e questa rabbia. Quel 6 maggio 2016 davanti quel cancello ho avuto difficoltà a dare una dimensione a tutto quello che era successo. Poi ho capito che la dimensione era quella che a Maria era stato imposto, e cioè il silenzio. E la mia rabbia, il mio dolore, potevano avere un senso nel cercare di abbattere quel muro di silenzio, quello che avrebbe voluto fare Maria. Ho capito che quel silenzio non era solo familiare. Quell’esecuzione in pubblica piazza era volutamente un tentativo di creare un terrorismo nella cittadinanza, per la mia Calabria, per la mia terra che io amo follemente nonostante tutto. Della serie “state tutti zitti, questo succede a una donna”. E allora ho avuto ancora più paura, la paura che quel silenzio imposto Maria si diffondesse anche in tutti gli altri, comprese le mie figlie. Ho iniziato a parlare con i carabinieri, con i magistrati, ho iniziato a capire, in contatto con i primi giornalisti, che quella denuncia che facevo doveva essere una denuncia sociale. Avrei dovuto denunciare davanti a tutti e quello che è successo in risposta è stato ed è ancora sorprendente: un fronte di protesta e di vicinanza di una popolazione che tutti definivano omertosa, chiusa».
Le rivoluzioni culturali hanno bisogno di anni per concretizzarsi. Ma qual è oggi la percezione di Vincenzo Chindamo relativamente al suo territorio? «Ho vissuto anche situazioni – ha rivelato il fratello di Maria Chindamo – in cui la gente abbassava lo sguardo e andava via, è inutile nasconderlo, ma queste sono situazioni che non vanno generalizzate. Ho avuto amministratori locali seduti accanto che non mi hanno stretto la mano i cui comuni poi sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose. Però dall’altro canto ho avuto un mare di sorrisi, strette di mano, abbracci e persone che si sono dimostrate naturalmente accanto come se fosse una cosa normale. Tante scuole, tanti insegnanti, tanti presidi, associazioni si sono schierati al mio fianco».

Le «porte aperte dello Stato»

Maria Chindamo è stata uccisa per il suo desiderio di libertà, ha pagato il suo essere emancipata e dotata di un’autonomia personale. E dopo otto anni si è arrivati finalmente a processo. «Io posso dire di aver avuto veramente sempre le porte aperte da parte dello Stato – ha ammesso Vincenzo Chindamo durante la puntata di Telesuonano –, della procura di Vibo, quella di Catanzaro. Mi sono seduto spesso a confrontarmi per ore e ore con gli addetti ai lavori facendogli saltare anche dei pasti e stando lì a parlare, a redigere verbali e a fornire ogni informazione che poteva essere utile. Ho visto veramente uno Stato impegnato. Per otto anni purtroppo il caso è stato difficile, non si è riusciti ad arrivare prima all’apertura di un processo. Adesso finalmente si è reso più manifesto il lavoro, le indagini e a leggere le pagine del fascicolo ci si rende conto di quanto si sia lavorato per arrivare a una giustizia. Mi auguro che da questo processo possiamo tirarne fuori la verità. I figli di Maria che avevano solo 20 anni, 15 e 10 anni la piccolina, aspettano, stanno crescendo con l’assenza del papà, con l’assenza della mamma e con un desiderio forte di verità. Credono anche loro nello Stato». «Vi dico una cosa molto particolare – ha continuano Vincenzo Chindamo –, il figlio grande si è arruolato in Aeronautica militare, Federica sta studiando e sogna di diventare magistrato e la piccolina che ha appena fatto 18 anni vuole fare il carabiniere».

Le strategie della ‘ndrangheta per sviare le indagini

In questi anni sono state numerose le strategie messe in campo per sviare, per occultare, per indirizzare altrove l’attenzione da parte della criminalità. «Sì, la ‘ndrangheta fa questo – ha detto ancora Vincenzo Chindamo – commette reati per seminare terrore in una sorta di si vede e non si vede. Si vede per terrorizzare la popolazione, non si vede per non essere accusati, imputati e condannati. Però evidentemente lo Stato ha una pazienza, me lo dissero sin dall’inizio, “questo è un lavoro di pazienza, ci dia la fiducia”. Io l’ho fatto e continuerò a farlo davanti ad ogni tipo di risultato».
Ma qual è stata la prima sensazione di Vincenzo Chindamo in aula a Catanzaro nel giorno della prima udienza? «È stato un momento fortissimo emotivamente – ha raccontato – quasi mi ero disabituato all’idea di doverci arrivare tanto era stato difficile il percorso, lungo, tortuoso, con qualche delusione da ingoiare. È stato un momento importante, mi sembrava di vivere un’atmosfera che non era quasi reale. La cosa che mi ha fatto piacere è non essermi sentito solo. Sono arrivato a Catanzaro, quella mattina ho parcheggiato la macchina e con lo sguardo basso e teso sono salito fino all’aula della Corte d’assiste di Catanzaro. Alzando lo sguardo ho incontrato tante persone e tanti amici, la stampa, le associazioni, gruppi di donne che venivano a dichiarare di essere vicine a Maria e di voler fare presenza alle udienze, le responsabili di un comitato civico di Marzi che si chiama “Se non ora quando”, che hanno intitolato un laboratorio sociale a Maria proprio per sostenere questa battaglia».

«La ‘ndrangheta deve essere raccontata per quello che è»

«La procura – ha ricordato Vincenzo Chindamo – ha scritto che il mandante dell’omicidio di Maria sarebbe il suocero, il nonno dei miei nipoti. E ha scritto dell’interesse delle terre della ‘ndrangheta da parte di Salvatore Ascone in proprio e mandato della cosca dei Mancuso per appropriarsi di quelle terre. Quindi quello che pensavamo noi non erano nostre fantasie ma idee che avevano anche un corpo di corrispondenza con il reale, con quello che la procura imputa a questi soggetti». «Il ruolo della famiglia – ha detto ancora Chindamo – a seguito di questa decisione di Maria ha cambiato aspetto o si è tolta la maschera. Così come il vicino di casa. Come dicevo, attorno a Maria si è creato un cerchio di odio che piano piano l’ha stretta e l’ha portata via, ma che io credo che Maria di questo ne fosse inconsapevole. Così come noi. Le nostre chiavi di lettura erano altre. Ma mai avremmo immaginato questo sviluppo».
Famiglia, possesso e mancanza di libertà delle nonne. Concetti che fanno parte del DNA della ‘ndrangheta. «C’è da dire – ha sottolineato ancora Vincenzo Chindamo – che fa schifo a tanti tutto questo. Io insegno da anni nelle carceri. Ed è proprio lì che mi viene espresso grande sdegno, vicinanza e solidarietà per quello che è successo, e parliamo di un ambiente particolare. La ‘ndrangheta deve essere raccontata per quello che è: quanto è feroce, quanto è intenzionata ad appropriarsi del territorio e delle vite delle persone, ma anche quanto è fallimentare tutto questo». «L’agguato in cui è rimasta uccisa Maria è stato pianificato – ha spiegato Chindamo – Lei doveva arrivare lì alle sette per aspettare due dei suoi operai. Maria arriva in ritardo di dieci minuti e non trova nessuno, perché un operaio era dietro a un trattore da quaranta minuti a fare dei lavori e l’altro ha fatto uno strano ritardo. Quindi hanno lasciato Maria da sola per coincidenza? Non lo sappiamo. Tra l’altro in quel punto c’era un sistema di videosorveglianza che stranamente, anche questa con una coincidenza molto strana, dalle 22.40 della notte ha smesso di funzionare».
Maria è stata rapita, uccisa e data in pasto ai maiali. «Fa parte dei miei incubi e anche dei miei familiari e dei miei nipoti – ha affermato Vincenzo Chindamo –. Lo schifo di quell’epilogo, data in pasto ai maiali, i resti triturati da un trattore, è il segno di una brutalità terribile che ha voluto terrorizzare, scandalizzare tutti quanti. Ma non ci sono riusciti, perché la gente si è ribellata a questo schifo invece di rimanere imprigionata in queste paure. È un delirio. Come disse un procuratore subito dopo l’omicidio, qualcuno si è voluto sostituire a Dio pensando di poter agire sulla vita degli uomini e delle donne arbitrariamente, ma mi auguro che la giustizia terrena e la giustizia divina facciano bene il loro lavoro». (redazione@corrierecal.it)

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