Riceviamo e pubblichiamo una missiva della Giunta Sezionale Associazione nazionale magistrati di Catanzaro agli studenti.
Siamo Magistrati e lavoriamo negli Uffici Giudiziari della Calabria: come voi viviamo in questa terra ricca di bellezza ma anche di difficoltà.
Il 21 Marzo ricorre la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie e con questo pensiero vogliamo condividere con voi il ricordo delle donne e degli uomini le cui vite sono state spezzate dalla violenza mafiosa.
Francesca Morvillo, Giudice presso la Corte d’Appello di Palermo, “eccellente, pronta e sagace”: così era definita dai suoi colleghi e queste qualità sono giunte a noi nonostante sia rimasta vittima nell’attentato mafioso del maggio 1992 a Capaci nel quale perdevano la vita anche Giovanni Falcone, suo marito, e gli uomini della scorta.
Entrata in Magistratura nel 1970, è tra le prime donne a rivestire questo ruolo, accessibile fino a pochi anni prima solo agli uomini. Francesca è testimone della silenziosa laboriosità che è l’unica strada per la realizzazione personale: numerosi ed efficaci i provvedimenti a sua firma, sempre impegnata in una risposta di giustizia rapida al cittadino.
Di lei si è sempre detto poco ma il suo coraggio parla più di mille testimoni: ha condiviso la lotta alla mafia con il proprio marito sino al sacrificio estremo della vita, non cedendo neppure davanti al primo attentato all’Addaura del Giugno 1989.
Francesca è l’unica magistrata italiana rimasta vittima in un attentato mafioso.
Francesco Ferlaino, nato a Conflenti, in Calabria, nel 1914, era Presidente della Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro. Entrato in magistratura nel 1943 celebrò uno dei primi e più importanti processi alla mafia siciliana, svoltosi a Catanzaro.
Portano la sua firma diversi provvedimenti di condanna anche della criminalità calabrese che in quegli anni – 1970 – pure colpiva parenti di alcuni imprenditori per affermare il proprio potere.
Il 3 luglio 1975, mentre il giudice si accingeva ad entrare in casa, in corso Nicotera di Lamezia Terme, dal finestrino posteriore di un’Alfa il killer sparò due colpi di lupara alla schiena del magistrato, uccidendolo.
Le indagini sulla morte di Ferlaino furono affidate alla Criminalpol e si concentrarono su tre imputati, due dei quali, nel 1980, assolti in tutti i gradi di giudizio per mancanza di prove. A lui è intitolato il Palazzo di Giustizia in cui ha sede il Tribunale di Catanzaro.
Sergio Cosmai, giovane direttore del carcere di Cosenza, dove giunse nel settembre del 1982, adottò una serie di provvedimenti finalizzati a ristabilire l’ordine all’interno dell’istituto di detenzione, contrastando il potere degli esponenti di spicco della criminalità organizzata, rimasto intatto nonostante la carcerazione. Mise fine ai privilegi a loro concessi e attivò una capillare sorveglianza per bloccare le loro attività illecite all’interno dell’istituto di pena, tra cui il traffico di droga e il possesso di armi. Il suo ruolo lo condusse a scelte dure e impopolari, finanche quella di non concedere l’ora d’aria supplementare chiesta dai detenuti. Tale ultima decisione scatenò una violenta protesta all’interno del carcere a seguito della quale Cosmai chiese di incontrare una rappresentanza di detenuti. Fu in quel momento che l’allora boss indiscusso della criminalità locale, Franco Perna, capo dell’omonima ‘ndrina, rifiutò l’offerta e chiese che fosse il direttore del carcere a recarsi da lui. Quest’ultimo non accettò e fu proprio a seguito di quel rifiuto che venne deciso il suo assassinio. Era il 12 marzo 1985 quando il dottor Cosmai, nel tragitto per la scuola della figlia, fu attinto da numerosi colpi di arma da fuoco che ne causarono la morte il giorno seguente.
Per l’omicidio furono condannati in primo grado all’ergastolo Nicola e Dario Notargiacomo e Stefano Bartolomeo. In appello i tre furono assolti per insufficienza di prove. Negli anni ‘90, però, i fratelli Notargiacomo diventarono collaboratori di giustizia e confessarono l’omicidio, facendo luce sulle dinamiche e indicando il mandante in Franco Perna, poi condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise di Appello di Catanzaro nel 2012.
Il 2 novembre 2017 a Sergio Cosmai è stata conferita la Medaglia d’oro al Merito Civile alla Memoria con questa motivazione: “pur consapevole del grave rischio personale, attivava una ferma azione di contrasto nei confronti delle feroci cosche ‘ndranghetiste locali, volta al ripristino e al mantenimento della disciplina e della legalità dell’istituto penitenziario. Per tale coraggiosa azione, tesa a recidere posizioni di privilegio tra i reclusi, cadeva vittima di un efferato agguato ad opera della criminalità organizzata, immolando la propria vita ai più nobili ideali di legalità e di giustizia”.
Gennaro Ventura, nato a Lamezia Terme il 13.8.1968, nel corso del suo servizio per l’Arma dei Carabinieri a Tivoli, recandosi nello studio di un perito chimico cui consegnare dello stupefacente da analizzare, incrociava per le scale due uomini: tra questi anche Raffaele Rao, cugino di Domenico Antonio Cannizzaro, boss della ndrangheta lametina.
Giunto col collega nello studio del chimico, Ventura scopriva non solo che il consulente era stato aggredito ma che pure gli era stato sottratto dello stupefacente da analizzare: per questi fatti Rao venne processato e riconosciuto colpevole di rapina e lesioni grazie anche alla testimonianza di Ventura.
Congedatosi dall’Arma e tornato a Lamezia Terme per intraprendere l’attività di fotografo coi propri familiari, il 16 dicembre del 1996 Gennaro si recò presso un casolare per un servizio fotografico che gli era stato commissionato: lì incontrò Gennaro Pulice che lo uccise vendicando, così, la condanna di Rao.
Il corpo di Ventura venne occultato in quello stesso luogo in cui si consumò il suo omicidio e lì rimase dal 1996 fino al 2008, quando è stato casualmente scoperto.
Solo nel 2015, il collaboratore di giustizia Pulice, esecutore del delitto, ha svelato agli inquirenti la dinamica e i motivi dell’agguato mafioso.
Per l’omicidio di Gennaro Ventura sono stati condannati Gennaro Pulice e Domenico Antonio Cannizzaro, quest’ultimo quale mandante.
Antonino Polifroni, imprenditore edile, avviava la propria attività tra gli anni sessanta e settanta nel territorio della Piana di Gioia Tauro. La dedizione al lavoro rese la sua impresa una realtà florida, i suoi cantieri erano sicuri e affidabili.
La sua capacità imprenditoriale venne ancor più pubblicamente riconosciuta quando nel 1976 raggiunse l’ambìto traguardo di iscrizione all’Albo nazionale dei costruttori, il primo a Varapodio. Promotore dell’artigianato locale, era anche uomo di grande generosità: era lui a finanziare la squadra di calcio della sua città.
La ‘ndrangheta bramava il controllo della sua azienda e Antonino fu presto destinatario di soprusi, intimidazioni, telefonate minacciose, fucilate alle finestre di casa. Subì anche incendi ai cantieri dell’impresa edile ma col suo coraggio indomito non solo rifiutò le richieste estorsive ma decise anche di denunciarle.
Numerose le telefonate nelle quali si chiedeva ripetutamente a Nino il pagamento di 100 milioni di vecchie lire, poi diventati 150, perché lui non voleva ascoltare «i consigli degli amici».
I sacrifici di Antonino Polifroni passavano anche per i giubbotti antiproiettile da indossare per andare a lavoro e le serrande di casa abbassate appena iniziava a fare buio. Le uscite negate ai figli.
Il 30 novembre del 1992, di ritorno da lavoro, venne ferito gravemente da colpi d’arma da fuoco: rischiò di perdere la vista, ma ciononostante mantenne ferma la sua condizione di libertà dalla morsa mafiosa, difendendo i suoi sacrifici e il frutto del suo duro lavoro, che aveva cominciato appena adolescente.
Una nuova forma di estorsione gli venne rivolta: l’imposizione della fornitura di materie prime da impiegare nella sua attività. Anche questo tentativo malavitoso di infiltrazione e controllo della sua azienda venne respinto da Polifroni, che si oppose a quella richiesta.
Il 30 settembre 1996 Antonino Polifroni fu ucciso in un agguato mafioso in contrada Botta, tra Varapodio e Oppido Mamertina: diversi i colpi d’arma da fuoco che lo colpirono, l’ultimo dei quali sparato a distanza ravvicinata.
I responsabili dell’omicidio non sono stati mai individuati.
Le vite di Francesca, Francesco, Sergio, Gennaro e Antonino, che abbiamo scelto per ricordare insieme a loro anche tutte le altre vittime di mafia, ci indicano la via maestra da percorrere per una società libera dal potere mafioso: l’impegno personale e costante di ciascuno di noi nella difesa della legalità.
L’impegno individuale non è impegno solitario, perché trova la presenza dello Stato in tutte le sue componenti, a partire dalla Scuola che è il primo strumento di libertà.
Noi Magistrati condividiamo quest’impegno insieme a voi Studenti che siete la Speranza del presente.
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