Segnatevi questo nome: Amerigo Dumini. Se ne può parlare, se ne deve parare, non solo perché sono passati 71 anni dalla sua morte, ma perché la storia non va mai in oblio. Amerigo Dumini, che la storiografia indica come l’autore materiale della morte di Giacomo Matteotti, nacque a Saint Louis (Missouri, Usa) il 3 gennaio 1894 da Adolfo, pittore ed antiquario, e Jessie Wilson. Su disposizione di Benito Mussolini, Giovanni Marinelli, capo della cosiddetta “Ceka”, squadra della polizia segreta del fascismo, ordinò a Dumini di rapire e uccidere il deputato socialista. Era il 24 giugno 1924 e, quest’anno, ricorre il centenario della morte di Giacomo Matteotti. A sostegno di una preminente responsabilità del Marinelli c’è lo studio dello storico Renzo De Felice che, nella sua monumentale opera su Mussolini scrisse, nel 1966, che il Marinelli fu «il responsabile numero uno dell’azione contro Matteotti». Dumini, e i suoi sodali Poveromo e Volpi, furono condannati dalla Corte d’Assise di Chieti a 5 anni, 11 mesi e 20 giorni, di cui quattro condonati in seguito all’amnistia generale del 1926. Uscito di galera, Dumini inizia la carriera di ricattatore, pretendendo dal partito premi, ricompense e il pagamento delle spese processuali. Poco dopo la sua scarcerazione si presenta alla presidenza del Consiglio pretendendo di parlare con Mussolini: «Sono qui per lavarmi dal sangue di Matteotti». Il Tribunale di Viterbo lo condanna, il 9 ottobre 1926, a quattordici mesi di detenzione per porto abusivo d’armi e oltraggio a Mussolini. Nel 1927 è di nuovo libero, per grazia sovrana, e le alte sfere cercano di sbarazzarsi definitivamente di lui mandandolo in Somalia, dove si trasferisce nell’estate 1928, e garantendogli una pensione di cinquemila lire al mese, che per l’epoca era una somma notevole. Anche qui però Dumini viene arrestato in ottobre, rispedito in Italia e condannato a cinque anni di confino. Tra gli altri luoghi, scontò parte del confino alle Isole Tremiti. A novembre del 1932 è libero, ma viene nuovamente arrestato il 12 aprile 1933. Intanto fa sapere al “quadrunviro” Emilio De Bono di aver consegnato a dei notai texani un manoscritto con la verità sul delitto Matteotti. Il ricatto ancora una volta funziona e viene posto di nuovo in libertà su ordine di Mussolini, con un indennizzo di cinquantamila lire. Su proposta del capo della polizia Arturo Bocchini, nella primavera del 1934 Dumini si trasferisce in Cirenaica; qui si dà all’attività di imprenditore agricolo e commerciale, ricevendo ingenti finanziamenti dal governo italiano, ammontanti, fra il 1935 e il 1940, a più di due milioni e mezzo di lire. In Libia Dumini esercitò vari mestieri, da commerciante di bestiame a proprietario di una trattoria, sempre sostenuto, nella sua perenne precarietà finanziaria, da sovvenzioni governative. Al momento del ritiro delle truppe italiane, rimase a Derna con l’incarico di comandare una organizzazione di spionaggio e sabotaggio. Scoperto dagli Inglesi e arrestato nel marzo 1941, il 7 aprile fu condannato alla fucilazione. Riuscì, tuttavia, a fuggire e a rientrare in Italia. Il 6 agosto 1943 fu arrestato dalle autorità del governo Badoglio. Liberato il 17 settembre, si recò a Firenze, dove prese a frequentare la locale federazione del Partito fascista repubblicano. Arrestato dal maggiore Mario Carità il successivo 1° novembre, tornò in libertà il 17 febbraio 1944. Durante i restanti mesi della Repubblica sociale italiana si dedicò al traffico di automobili, pezzi di ricambio, armi. Arrestato il 18 luglio del 1945 a Piacenza, nelle vesti di autista del comando inglese, nel nuovo processo sul delitto Matteotti, svoltosi a Roma presso la Corte d’assise speciale, dal 13 gennaio al 4 aprile 1947, fu condannato all’ergastolo per omicidio premeditato. Liberato per condono nel ‘53, ma successivamente riarrestato per errata applicazione dello stesso, usci dalla casa penale di Civitavecchia il 23 marzo del 1956. “Il Foglio” ha pubblicato nei giorni scorsi un profilo di Amerigo Dumini. L’autore è il giornalista Siegmund Ginzberg, ebreo nato in Turchia e cresciuto a Milano. Questo l’incipit del commento: «L’assassino era un assiduo frequentatore dell’ufficio stampa della presidenza del Consiglio. Riceveva pagamenti dal Viminale (allora sede della presidenza del Consiglio). Si era persino fatto stampare biglietti da visita in cui appariva nelle vesti di funzionario dell’ufficio stampa. Fu forse lui stesso a far avere al Viminale, subito, il giorno dopo il delitto, molto prima che venisse ritrovato il corpo, molto prima che Mussolini ammettesse di saperne qualcosa, il passaporto e altri documenti che erano nella borsa sottratta all’ucciso. Tra questi, probabilmente, anche la bozza del discorso a cui stava lavorando in quei giorni. L’assassino negò però sempre che nella borsa ci fosse anche del materiale sull’affaire Sinclair Oil, la brutta storia di tangenti petrolifere in cui era implicato niente meno che il fratello del presidente del Consiglio. Ma di lui non possiamo fidarci più di tanto: cambiava continuamente versione, e ogni nuova versione era una strizzata d’occhio, un avvertimento, una minaccia ricattatoria ai suoi mandanti. Un modo per dirgli in punta di lingua: non dimenticatevi di me, se no racconto tutto». Ergo!
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