Accade che cittadini di uno stesso Stato unitario godano di servizi pubblici essenziali differenti, per qualità e quantità, sulla base di una lotteria alla nascita, che assegna, in regioni italiane diverse, opportunità e vincoli allo sviluppo della persona umana completamente differenti, nei molteplici campi che definiscono la qualità della vita, quali salute, istruzione, qualità ambientale, accessibilità fisica, sicurezza personale, giustizia.
È così già da tempo: le disuguaglianze odierne in termini di disponibilità, accessibilità e qualità di servizi civili essenziali tra regioni del Nord e del Mezzogiorno sono così marcate da risultare già oggi razionalmente incompatibili con uno Stato costituzionalmente vincolato a perseguire equità di offerta di servizi, a “rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, come invece vorrebbe l’art. 3 della Costituzione.
Ma oggi siamo colpiti da uno schiaffo violento e sonoro, che da un lato aumenta la mortificazione dei cittadini italiani, e in particolare di quelli delle “regioni in ritardo”, dall’altro scuote l’attenzione: le “Disposizioni per l’attuazione dell’Autonomia Differenziata” (Disegno di Legge presentato dal Ministro per gli Affari Regionali e le autonomie, Calderoli, A.C. 1665).
La mortificazione è che nonostante le forti disuguaglianze civili, ed economiche, sopraggiunge la proposta di legge, con il conseguente avvio dell’iter parlamentare di approvazione, di richiesta di autonomia differenziata che porta con sé un’idea di Paese non già coeso e il più possibile omogeno nei pilastri fondamentali del vivere civile, ma di separazione nella loro gestione, di articolazione regionale di contenuti e forme dell’assistenza sanitaria, della formazione scolastica e universitaria, e molte altre materie. Insomma: ferisce e brucia la ceralacca, il timbro della gazzetta ufficiale, “l’istituzionalizzazione delle disuguaglianze”.
Sono 23 gli ambiti possibili di “secessione”, le “materie” su cui si potrebbe fare richiesta di “autonomia” da un governo unitario nazionale. Estesissime sono le richieste di trasferimento di competenze da parte del Veneto, Lombardia e Emilia Romagna, che sole rappresentano il 40% del reddito prodotto complessivamente dall’intero Paese. Tutto ciò nella stridente contraddizione di un Paese che ha sottoposto al parlamento europeo, e da questo ne ha avuto approvazione, del più esteso Recovery Plan del programma di Next Generation EU, all’interno del quale uno dei tre obiettivi trasversali è quello della riduzione delle disparità territoriali.
Ed è proprio in virtù dell’importanza e dell’esigenza di perseguire questo obiettivo di riduzione delle distanze tra territori che l’Italia ha avuto un così elevato ammontare di fondi rispetto ad altri paesi europei. Ma allora, ci si chiede: da che parte sta lo Stato? Da che parte sta chi ci governa?
Spaventa in particolare che il Disegno di Legge “Calderoli” non sia corredato da un insieme di regole generali e necessarie per assicurare che l’attuazione dell’impianto normativo non produca disparità fortemente destabilizzanti per l’intero Paese. È, infatti, il modo in cui si realizzerà il trasferimento di funzioni a determinare quali e quanti effetti produrrà sul governo delle politiche pubbliche, sulla trasparenza, sulle condizioni dei cittadini, sui giovani, sulla loro formazione e sul loro inserimento lavorativo (ci saranno discriminazioni e valutazioni selettive che dipendono da dove si sono formati e dove sono nati e cresciuti? Quali effetti avrà sulle nostre scuole, sulle nostre università, sulle migrazioni interne?) Quali impatti sull’efficienza/inefficienza economica? Si pensi a imprese, organizzazioni che operano in differenti regioni e che si trovano a confrontarsi con regolamenti amministrativi differenti in ogni territorio; si pensi alla tutela della salute e quanto abbiamo potuto constatare durante agli insegnamenti della pandemia, ovvero che la frammentazione delle competenze su più livelli di governo può ostacolare la rapidità e la qualità dei processi decisionali (Zanardi 2023; Banca d’Italia 2023; Viesti 2024).
Ma spaventa ancora di più che il DL preveda che gli ambiti nei quali trasferire le competenze possano essere stabiliti dal Consiglio dei ministri su proposta dei singoli ministri competenti, anziché essere decisi in Parlamento, dopo essere stati discussi e valutati approfonditamente, in quanto aspetti evidentemente cruciali per la vita del Paese.
Preoccupa il ritardo nell’individuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), già previsti dalla legge 42 del 2009, che riguardano i fondamentali diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Ma preoccupa ancora di più che i LEP vengano legati al disegno di concedere maggiore autonomia di competenze: vengono agitati come garanzia di miglioramento dei servizi per tutti i cittadini, sia di quelli residenti nelle regioni ad autonomia differenziata che nelle altre. Ma la definizione dei LEP è prevista dalla Costituzione: sono decisivi perché sanciscono i livelli imprescindibili dei servizi pubblici essenziali che definiscono i diritti sociali e civili di cui può godere ciascun cittadino, e lascia perplessi il fatto che vengano presentati e sbandierati oggi come un corollario della concessione di autonomia differenziata.
Preoccupa che con il trasferimento alle regioni “ricche” di un consistente numero di funzioni oggi svolte dallo Stato, e delle relative risorse umane, strumentali, finanziarie, ci sarebbe un forte aumento del bilancio regionale di queste regioni e un ridimensionamento di quello statale con il rischio di non riuscire a garantire livelli comparabili di servizi essenziali nelle altre (Servizio Bilancio del Senato, 2023; Viesti, 2024) : in altri termini, la costruzione ostinata e contraria al dettato costituzionale di garantire diritti uniformi a tutti i cittadini.
Dunque, qual è l’idea di Stato che accompagna il disegno di autonomia differenziata? Quale è l’idea di Europa? Come si declina in quel disegno il principio della coesione territoriale? E il principio ONU di “non lasciare indietro nessuno” (Leave No One Behind)?
Seppure nel cono d’ombra di un paese che ha tolto centralità alla qualità della vita delle persone nei luoghi, e che riduce sempre di più gli spazi di democrazia, questo paese è vivo. È vivo nelle manifestazioni che rivendicano uguaglianza di diritti di cittadinanza, nella rivendicazione delle donne contro la violenza, nei cortei degli studenti solidali con i popoli oppressi da guerre e da invasori, nella risposta compatta alla violenza gratuita contro adolescenti inermi e disarmati con il viso scoperto baciato dal sole.
Questo paese è vivo nelle molte associazioni dal basso, nei movimenti e organizzazioni sociali che prendono varie forme, di auto-organizzazione, di mutualismo, organizzazioni sindacali che cercano di rinnovarsi, e tentano di intraprendere vie alternative di produzione, di consumo, di stili di vita.
È vivo nell’impegno di quanti invertono lo sguardo per osservare dai margini luoghi distanti dai minimi livelli di servizi essenziali e guarda alle persone in quei luoghi; di chi insiste nel vedere le disuguaglianze nel caleidoscopio della molteplici sfaccettature della qualità della vita e del vivere civile, di chi si sostiene reciprocamente nel sentire comune della bellezza della pratica di azioni di coesione e di solidarietà, di contrasto alle subalternità di classe, di genere, di provenienza, di religione. Questa mattina a Cosenza un corteo di persone si è schierato dalla parte di chi vive e pratica questa idea di comunità di persone, di collettività, di stato nazionale, contro l’autonomia differenziata.
* Professoressa ordinaria di Economia Applicata, Università della Calabria
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