COSENZA Il cuore, il più grande nemico di Ettore Lanzino: affetto da cardiopatia è morto all’età di 69 anni in carcere, a Parma, questa mattina intorno alle 7. L’ex “padrino” della mala cosentina ha vissuto gli ultimi anni al 41bis, in regime di carcere duro, dopo una vita spesa a guidare la consorteria di ‘ndrangheta, tra latitanze e detenzioni. Un infarto avrebbe stroncato la sua vita, un altro infarto – anni fa – lo costrinse a lasciare il carcere di Sassari ottenendo il trasferimento a Parma, struttura carceraria ritenuta adeguata alle cure. La quasi totalità della sua storia coincide con l’evolversi, di quella consorteria mafiosa che oggi porta nella denominazione anche il suo cognome (cosca Patitucci-Lanzino-Ruà).
Al termine del processo “Garden“, la sentenza sanciva in maniera risolutiva come Ettore Lanzino fosse già da considerarsi un elemento di spicco della criminalità organizzata cosentina essendo inserito nell’allora sodalizio mafioso Pino-Sena: operante sull’intera Provincia bruzia e collegato con altri gruppi criminali come Muto, Cirillo, Galvano e Chimenti. Nella sentenza, i giudici avranno modo di sottolineare: «la personalità e la spiccata capacità a delinquere dimostrate: dai numerosi e gravi precedenti penali risultanti a suo carico relativi a violazioni ripetute della normativa in materia di armi, delitti contro il patrimonio e la persona». Ma la sua caratura criminale veniva confermata con la sentenza emessa il 19 aprile 2012 dalla Corte d’Assise di Cosenza che lo condannava alla pena dell’ergastolo per gli omicidi di Marcello Galvano e Vittorio Marchio, uccisi, in quella scia di morte che ha “movimentato” gli anni a cavallo tra la fine del ’90 e il nuovo secolo. Le vittime vennero uccise per «non aver accettato le nuove regole dettate dai vertici della Confederazione». La Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro in merito a quella sentenza, lo condanna all’ergastolo con isolamento diurno per anni 2 con interdizione perpetua.
È il luglio del 2000 quando, a Cosenza, le sirene e i lampeggianti delle macchine delle forze dell’ordine illuminano e rompono il silenzio della notte per un altro provvedimento di fermo eseguito nell’ambito dell’operazione denominata “Squarcio“. Lanzino esce dal carcere dopo un anno e viene nuovamente arrestato nel novembre del 2002 a seguito dell’operazione denominata “Tamburo“, per cui unitamente ad altri affiliati, il 21 febbraio 2008 viene condannato dalla Corte Suprema di Cassazione per associazione per delinquere di tipo mafioso. A cavallo tra il ritorno in libertà e il nuovo arresto, il 25 agosto 2001, scatta l’operazione “Luce” per ricostruire una serie di omicidi avvenuti a Cosenza tra il 1991 e il 1994. In quegli anni moriranno Giovanni Leanza, Francesco Pagano, Luigi Parise e Gabriele Mastroianni. Ettore Lanzino insieme a Gianfranco Bruni, Gianfranco Ruà, Rinaldo Gentile, Francesco Presta ed altri soggetti ritenuti appartenenti a consorterie di tipo mafioso, vengono accusati – a vario titolo – di omicidio doloso, sequestro di persona e occultamento di cadavere. Il 2 ottobre 2004, la Corte di Assise di Cosenza, al termine del processo di primo grado, condanna Lanzino alla pena dell’ergastolo con l’isolamento diurno per mesi 10.
Sono i due procedimenti penali scaturiti dalle operazioni “Squarcio” e “Tamburo” a consentire ai magistrati di tratteggiare l’ascesa criminale di Ettore Lanzino e Domenico Cicero. Che «dopo le scarcerazioni seguite al processo “Garden”, avevano riconquistato a suon di omicidi le posizioni perdute, concentrandosi anche sulle “grandi estorsioni”».
C’è un’altra inchiesta condotta agli inizi degli anni 2000 e che rappresenta un’altra importante attività investigativa: l’operazione “Twister“. Nella sentenza pronunciata in primo grado, il Tribunale di Cosenza, condanna – tra gli altri – Lanzino alla pena di anni 5 di reclusione. La Corte d’Appello di Catanzaro dispone invece l’aumento di due anni della condanna passata in giudicato, inflitta nel processo “Tamburo” in continuazione con quella del processo “Garden”. E viene disposta la scarcerazione di Ettore Lanzino che torna libero e sposta la propria residenza a Rende, in quel lembo di terra bruzia «controllato dai Di Puppo». E’ il 2008 quando Lanzino sfugge ad un nuovo arresto rendendosi invisibile per quasi quattro anni, fino al 16 novembre 2012, quando i Carabinieri lo arrestano. Il latitante era ricercato perché colpito da quattro ordinanze di custodia cautelare per associazione mafiosa e omicidio.
La figura criminale di Ettore Lanzino è autorevole e diventa protagonista di tutte le fasi evolutive della mala cosentina. Dalle sanguinose faide, alla pax fino al progetto di Confederazione. Quell’agglomerato di clan che comanderebbero a Cosenza e nell’hinterland bruzio colpito nel corso dell’inchiesta “Reset” coordinata dalla Dda di Catanzaro. Già dalle risultanze dell’inchiesta denominata “Missing” emergono i primi «segnali» della volontà di «federare» le consorterie. I violenti contrasti lasciano spazio ad un presunto patto di mutua collaborazione criminale, non prima di una riorganizzazione resa necessaria a seguito dell’arresto di tutti i maggiori esponenti delle cosche. L’accordo tra Ettore Lanzino e Domenico Cicero viene sancito all’interno della Casa Circondariale di Catanzaro con la previsione di «squadre» per «materia criminale» e l’istituzione della prima “bacinella”, la cassa comune.
Il nome in codice “Terminator” (2 e 4), indica una serie di operazioni condotte dalle forze dell’ordine, arrivate a processo e giunte a sentenza con Lanzino ancora protagonista. Il 16 aprile 2014, la Corte D’Assise di Cosenza condanna all’ergastolo il boss. La sentenza si sofferma sugli omicidi di Francesco Bruni (ucciso a Cosenza nel 1999) e Antonio Sena (ucciso a Cosenza il 2000), per i quali vengono condannati Ettore Lanzino, Franco Presta, Vincenzo Dedato e Francesco Bevilacqua. Lanzino sarà poi condannato anche per l’omicidio di Enzo Pelazza compiuto a Carolei il 28 gennaio del 2000. E’ il procedimento “Vulpes” a determinare – invece – la ricostruzione della strategia criminale del sodalizio capeggiato da Lanzino, «diretta espressione criminale di Gianfranco Ruà». Un gruppo poi costretto a mutare il proprio assetto favorendo la nascita di quello che oggi viene definito clan “Lanzino-Ruà-Patitucci“. A benedire il nuovo corso del clan fu proprio Lanzino, come racconta il pentito Franco Bruzzese. «Nel corso di incontri si cominciò a parlare di questo accordo tra “Zingari” ed “Italiani”, che fu poi suggellato nel Novembre del 2011 quando mi recai a trovare Lanzino, all’epoca latitante, a Rende nel sottoscala di un palazzo, dove erano presenti Umberto Di Puppo e Francesco Patitucci. Come facenti parte degli “Zingari” c’eravamo io e Maurizio Rango. In quella sede, la federazione con il clan degli italiani, ossia il clan Lanzino, ebbe il suggello definitivo con la presente del latitante Ettore Lanzino».
(f.benincasa@corrierecal.it)
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