ROMA “Nella mia vita ho conosciuto centinaia di collaboratori di giustizia, i pentiti li conto sulle dita di una mano. Evitiamo di usare la parola pentimento, perché il pentimento è una cosa e la collaborazione con la giustizia è un’altra. Questo aspetto non è secondario perché ci deve dare la misura di come viene affrontato il problema da un punto di vista esclusivamente laico, di etico tutto questo ha praticamente zero”. A parlare è il magistrato Alfonso Sabella intervistato a Radio Cusano Campus sul boss della camorra Francesco Schiavone, detto Sandokan, durante il programma ‘L’Italia s’è desta’ condotto dal direttore del giornale radio Gianluca Fabi e da Roberta Feliziani. “Buscetta potrebbe essere uno di questi pentiti”, ha dichiarato il magistrato che ha raccontato anche che con lui non aveva avuto un grande feeling “perché mi parlava di una mafia che non avevo conosciuto, una mafia ‘etica’ diceva. Io ho conosciuto la mafia che ammazzava e uccideva. Quando ho arrestato Giovanni Brusca mi ha chiamato dall’Ucciardone il generale della penitenziaria a cui era stato affidato e mi ha detto ‘il bambino ha bisogno d’affetto’. Da lì ho capito che Brusca voleva collaborare con la giustizia”, ha spiegato Sabella. “La collaborazione di Brusca era fondamentale e poteva farci salvare tante vite umane, ma dal punto di vista etico significava che avrei dovuto collaborare con quel criminale che ho braccato per anni, che ha ammazzato Giovanni Falcone, che ha fatto strangolare il piccolo Di Matteo. Gli dovevo stringere la mano. L’uomo Alfonso Sabella quella mano non l’avrebbe mai stretta; il magistrato Alfonso Sabella quella mano l’ha stretta e abbiamo proceduto nella collaborazione”. Ha poi proseguito: “il problema molto spesso sono i famigliari. A Buscetta hanno ammazzato tutta la famiglia, figli compresi, a Contorno hanno ammazzato tutti i parenti fino al quarto grado, a Mannoia tutte le donne della famiglia. Questo prima che esistesse la legge sulla collaborazione con la giustizia, fortemente voluta da Giovanni Falcone”. E sul depistaggio spesso frequente tra i collaboratori di giustizia Sabella ha sottolineato: “una cosa fondamentale nel rapporto con il collaboratore è non far mai capire che cosa vuoi ottenere dalle sue dichiarazioni. Se hai un processo rischi che il collaboratore, soprattutto nella prima parte e se relativamente inesperto, te la dia per accontentarti. In quel momento hai perso e ha perso la giustizia, perché al dibattimento quelle dichiarazioni cadranno nel nulla e verrà minata anche la credibilità intrinseca dello stesso collaboratore di giustizia”. Un’altra cosa è l’atteggiamento psicologico: “il magistrato deve trattare il collaboratore con umanità, con rispetto, ma dentro di te devi sempre avere la consapevolezza che hai a che fare con un criminale. Quindi dentro di te la dignità di essere un tuo interlocutore, quella di un tuo pari non gliela devi mai dare”, ha voluto precisare Sabella. Soffermandosi su Schiavone “adesso c’è ovviamente la preoccupazione di una certa parte della società ‘civile’ che si agita”, ha fatto presente il magistrato. “La differenza tra Camorra e Cosa Nostra è sempre stata sul fatto che non è mai esistito un capo della Camorra, esistono vari clan a volte confederati tra loro; mentre un capo di Cosa Nostra è sempre esistito. Cosa Nostra è piramidale, un’organizzazione verticale e verticistica, la Camorra, come la ‘ndrangheta, è un’organizzazione orizzontale. È obiettivamente una novità però che un capo di Cosa Nostra dopo 25 anni trascorsi in carcere decida di collaborare. Oggi però che cosa ci può dare? I miei colleghi di Napoli saranno sicuramente bravi a cogliere tutte le indicazioni ancora utili, ma si tratta di indicazioni vecchie e stravecchie. Dobbiamo prendere atto che risalgono a 25 anni fa”, ha concluso Sabella.
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