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la riflessione

Quel disturbo dei “paesi” che vogliono chiamarsi “città”

Che cosa ha fatto di male il “paese”, scrigno di cultura e umanità, al punto da preferirgli il titolo onorifico di “città”, deludendo Josè Feliciano e i “Ricchi e poveri” che con “Che sarà” preser…

Pubblicato il: 09/04/2024 – 10:13
di Romano Pitaro
Quel disturbo dei “paesi” che vogliono chiamarsi “città”

Che cosa ha fatto di male il “paese”, scrigno di cultura e umanità, al punto da preferirgli il titolo onorifico di “città”, deludendo Josè Feliciano e i “Ricchi e poveri” che con “Che sarà” presero il secondo posto al Festival di Sanremo del 1971 e, al contempo, tutta la letteratura paesologica da Cesare Pavese a Franco Arminio?
Il titolo di città (concesso con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministero dell’Interno a comuni insigni per ricordi, monumenti storici e per l’attuale importanza) vede nel Belpaese, da Nord a Sud, un’aspirazione contagiosa.
Una corsa a chi s’aggiudica l’onorificenza. Come se cambiando la denominazione di “paese” ad un’aggregazione umana dal “cuore antico” si prendesse il cielo con le mani, convertendo per incantamento la marginalità sociale in opulenza generale.
Di fatto, è un titolo simbolico che non dà alcun privilegio. Non cambia di un’h il destino di un paese che, pur non soffrendo le contraddizioni della città (addensamento delle attività produttive, inquinamento, traffico e stress) e meno che mai della città metropolitana, reclama di farsi chiamare città.
E dunque: da dove sbuca il disturbo culturale da ansia ipermodernista che spinge a disfarsi del “paese”, quando “paese” meglio riflette sia il lascito dell’oikofilia e della filoxenia della cultura greca che la fascinazione del villaggio (“pagus”) e, paradossalmente, in un tempo di convulsioni biotecnologiche, è più congeniale ad un pianeta che conviene sulla necessità di un diverso paradigma nelle relazioni uomo e ambiente?
Scriveva Cesare Paese (“La luna e i falò”) che “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
Ma ciononostante si sgomita per trasformare i nostri paesi dalla storia millenaria in illusorie città invisibili che, fin dal nuovo nome, attestano (specie in Calabria) la patologia epidemica “che produce nella gente uno stato di coma neurovegetativo topografico” e .che lo scrittore Francesco Bevilacqua chiama “amnesia dei luoghi”.
E che dire dell’insulto ai nostri borghi, rinunciando al suono tondo e musicale di “paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato / paese mio, ti lascio io vado via”? Dove “vado via”, mentre denuncia la ferita di chi (benché obbligato a partire), farebbe di tutto per restare, non invita certo a buttare alle ortiche il “paese” assieme all’anima delle generazioni che l’hanno vissuto, nell’inconscia convinzione che per salvare i paesi dal crepuscolo non ci sia più altro da fare.
Se, alla fin fine, anziché adottare politiche per rivitalizzare i paesi colpiti da spopolamento e povertà, l’unico rimedio è cambiarne il nome, c’è da mettersi le mani nei capelli.

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