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Siccità, dissesto ed erosione. I rischi in Calabria secondo il presidente dei geologici Violo

Il Ponte sullo Stretto «è una struttura unica al mondo, ma bisogna superare prima le criticità tecniche»

Pubblicato il: 12/04/2024 – 6:57
di Emiliano Morrone
Siccità, dissesto ed erosione. I rischi in Calabria secondo il presidente dei geologici Violo

Stamani al Grand Hotel di Lamezia Terme è prevista un’importante iniziativa pubblica sulla progettazione dei pozzi, organizzata dall’Ordine dei geologi della Calabria con il contributo del Consiglio nazionale della stessa categoria e dell’Anipa, associazione di punta nel campo dell’idrogeologia. È l’occasione per discutere dell’argomento con il presidente dei Geologi italiani, Arcangelo Francesco Violo, calabrese di origine, laureato all’Unical e con un curriculum pieno di ruoli apicali: «coordinatore della Commissione nazionale risorse idriche, componente dell’Osservatorio nazionale per la ricostruzione post-sisma 2016 dell’Italia centrale, membro del Tavolo tecnico per la revisione Testo Unico per l’Edilizia» e poi del «Comitato speciale del Consiglio superiore dei lavori pubblici per l’accelerazione delle opere complesse del Pnrr». Con il presidente Violo parliamo anche di come fronteggiare la siccità in Calabria, di dissesto idrogeologico ed erosione costiera nella regione, di rischi e fattibilità del ponte sullo Stretto.

Presidente, partiamo dall’evento di oggi, dedicato all’acqua, grande risorsa ma grosso problema pure in Calabria.

«Il seminario tratta un tema importante, relativo all’utilizzo sostenibile della risorsa idrica sotterranea correlata alla corretta progettazione delle opere di captazione pozzi. Quindi, si parlerà delle problematiche che riguardano in particolare gli acquiferi sotterranei e le opere di captazione idrica. Si discuterà dell’importanza di una progettazione di qualità dei pozzi a salvaguardia del sistema ambientale, nonché di esempi locali di gestione di campi pozzi e di sfida agli effetti dei cambiamenti climatici che causano siccità e obbligano alla gestione integrata della risorsa. Gli acquiferi sotterranei possono fungere da serbatoio naturale, dunque possono essere utilizzati, nei periodi di magra, per compensare la scarsità dei corpi idrici superficiali davanti alla siccità».

Quindi vi prefiggete di dare dei suggerimenti tecnici?

«Sì, in questo seminario intendiamo dare alcuni contributi, con suggerimenti di best practice, anche ai rappresentanti delle istituzioni. Questo al fine di migliorare la pianificazione per l’utilizzo delle risorse idriche in Calabria e per rispondere alla necessità di potenziare le conoscenze sugli acquiferi sotterranei nella nostra regione, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Ciò consentirà un approfondimento delle caratteristiche degli acquiferi e aiuterà a programmare l’utilizzo della risorsa idrica senza arrecare danni alle falde stesse e in modo che i disservizi dovuti a deficit idrici, sia per quanto riguarda gli usi civili che gli usi irrigui, siano sempre più ridotti. La questione è molto attuale, anche perché, in Calabria, il Piano di tutela delle acque va sicuramente aggiornato e implementato. Peraltro, nella regione si registra un forte arretramento nelle pratiche di concessione idrica per l’emungimento di acque sotterranee. È un altro problema, segnatamente burocratico e comunque noto, che i geologi vogliono ribadire».

Può dare più dettagli sulle pratiche di concessione?

«Le captazioni idriche vanno sottoposte a un iter procedurale concessorio in cui intervengono gli enti competenti quali Regione e Città metropolitana di Reggio Calabria, acquisendo anche pareri inter-procedimentali come quello del Distretto idrografico (dell’Appennino meridionale, nda). Queste procedure registrano un forte rallentamento, dovuto anche a una carenza delle strutture tecniche che devono essere adibite a istruire le pratiche e completare l’iter concessorio. Vi è anche, poi, un problema strutturale, in quanto molte volte, sugli acquiferi sotterranei, non ci sono le informazioni di base necessarie per la formulazione dei pareri alla luce delle riferite conoscenze. Insomma, per intenderci, per fornire un parere su un pozzo per emungimento di acqua sotterranea, bisogna pronunciarsi sulla sua compatibilità al prelievo. Si è dunque chiamati a fornire un bilancio idrologico e idrogeologico che possa stabilire che quell’acqua si può prelevare senza arrecare danni alla falda, senza impoverirla».

Vale la pena soffermarsi ancora, a beneficio dei lettori.

«È necessario sapere se in quell’area ci sia ricarica della falda, quindi quanta acqua abbiamo a disposizione, ma anche quanti sono i prelievi lì esistenti. In mancanza di queste informazioni è difficile, anche da parte degli enti competenti, dare pareri su basi tecnico-scientifiche solide. Si tratta, allora, di una questione che va posta, perché, come detto, siamo di fronte a un grosso rallentamento nel rilascio di questi pareri, relativi a opere utili e indispensabili per attività imprenditoriali oltre che per uso irriguo. Sono pareri che devono assumere come priorità la sostenibilità degli emungimenti, poiché le acque sotterranee sono preziose, spesso di grande qualità, dunque da tutelare. Sempre in tema di tutela, i pareri assumono un’importanza strategica in ambiti territoriali caratterizzati da coste basse, dove l’emungimento da pozzi può determinare l’ingresso del cuneo salino, creando condizioni di irreversibilità o elevate criticità, fenomeni già registrati in Calabria».

Presidente, lei sta esponendo la situazione della Calabria. Quali sono le criticità negli uffici che esprimono i pareri tecnici?

«È’ evidente la necessità di potenziare le strutture tecniche degli enti concedenti e quelle dei Distretti idrografici che devono dare i pareri di competenza. In questo settore è spesso diffusa la carenza di personale tecnico, sia su scala nazionale che in Calabria. Intendiamoci, quello in servizio lavora anche molto, ma il numero non è adeguato a far fronte alle richieste in tempi congrui».

Quali sarebbero i tempi congrui e quali sono invece quelli attuali?

«In regioni dove le informazioni idrogeologiche ed i monitoraggi dei corpi idrici sotterranei sono di livello adeguato, si riesce ad avere una pianificazione dell’utilizzo delle acque sotterranee già ben precisa. Perciò si riesce ad arrivare ad un provvedimento di concessione nell’ordine di 90-150 giorni».

E in Calabria?

«Possono volerci anche degli anni. Bisogna ancora lavorare molto. Ora si opera perlopiù senza dati di base affidabili, quindi spesso vengono richiesti ai professionisti approfondimenti da parte del Distretto idrografico dell’Appennino meridionale e si registrano allungamenti burocratici che nel settore specifico creano seri problemi. Bisogna ricordare, il dato è nazionale, che circa l’84% degli usi civili viene da acquiferi sotterranei. È pure vero che per altri usi ci sono infrastrutture idriche come i piccoli invasi, che in qualche modo riescono a soddisfare le esigenze, ad esempio soprattutto per il comparto agricolo. È allora importante che tutto il sistema idrico nazionale, compreso quello della nostra Calabria, sia ottimizzato con l’utilizzo di tutti i tipi di approvvigionamento, sia di acque superficiali che di acque sotterranee, anche migliorando le infrastrutture idriche che spesso, come sappiamo, sono vetuste, sicché hanno perdite talvolta superiori al 40%. Serve tutta un’attività integrata per risolvere il problema».

Che cosa dice delle dighe?

«Ora stiamo parlando dei pozzi e degli acquiferi sotterranei, che sono temi del seminario, ma si potrebbe parlare dei problemi legati alla necessità di efficientare le dighe, completarle dove non sono completate o creare degli invasi che siano adeguati a immagazzinare l’acqua quando ne abbiamo in abbondanza. Se consideriamo gli effetti dei cambiamenti climatici, ci troveremo sempre più spesso ad avere brevi periodi di forte intensità piovosa alternati a periodi di siccità sempre più lunghi. Quindi dobbiamo essere bravi ad immagazzinare l’acqua quando è possibile e pianificare una gestione adattiva della risorsa».

Ricordo che siete stati attivi nel merito, come Consiglio nazionale dei geologi, proponendo vostri contributi al decreto Siccità.

«Sì, come Consiglio nazionale abbiamo portato, nelle audizioni parlamentari cui abbiamo partecipato, proposte emendative in fase di conversione in legge del suddetto decreto, introducendo la possibilità, che spero sia colta anche nelle regioni del Sud, quindi in Calabria, di utilizzare la ricarica delle falde acquifere anche come mezzo di accumulo dell’acqua nei periodi di abbondanza. La ricarica controllata della falda rappresenta uno strumento importante, spesso non attuato anche perché poco conosciuto. La ricarica controllata della falda viene praticata già in altre regioni del Centro e del Nord con costi di realizzazione nettamente inferiori ai metodi di accumulo convenzionali come le dighe, ma con costi più bassi anche rispetto alla dissalazione delle acque di mare. Inoltre, in tale decreto è stato inserito un emendamento in favore dell’implementazione delle reti di monitoraggio delle acque».

Quanto conta il monitoraggio quali-quantitativo delle acque?

«Esso rappresenta, unitamente al censimento delle utenze, uno strumento conoscitivo fondamentale per la costruzione di bilanci affidabili, basati su dati di input e non su ipotesi comportamentali della risorsa, e, in linea con le rinnovate esigenze dettate dagli effetti dei cambiamenti climatici, risulta basilare per il rilascio del parere di compatibilità ambientale ex ante; parere obbligatorio ai fini del rilascio delle concessioni di utilizzo della risorsa».

Qual è, in Calabria, lo stato attuale in merito al contrasto al dissesto idrogeologico?

«È l’altra faccia della medaglia di cui dicevamo prima. Purtroppo, i cambiamenti climatici creano quel periodo di intensa piovosità che impatta sul territorio; quello calabrese ha una forte predisposizione intrinseca, naturale, al dissesto. La Calabria è una terra geologicamente giovane, quindi abbiamo ancora dei terreni, delle formazioni geologiche che sono molto vulnerabili da questo punto di vista».

Andiamo pure in profondità.

«Praticamente, tutti i comuni calabresi hanno almeno un’area a rischio frana o a rischio alluvione; è un fatto dovuto, come detto, alle caratteristiche geologiche del territorio. È pur vero che gli impatti di questi eventi estremi, sempre più frequenti, vanno ad agire su un territorio che, negli ultimi decenni, è stato interessato da una urbanizzazione speculativa e a volte abusiva. L’aver costruito senza una pianificazione corretta, aumenta il problema del dissesto idrogeologico: si è edificato in aree dove non si doveva, in frana, oppure si è andati a urbanizzare restringendo gli alvei fluviali. Questo ci obbliga ad agire sulla pianificazione, sugli aggiornamenti appunto dei Piani strutturali comunali e del Piano di assetto idrogeologico».

Come siamo messi in proposito?

«Il Piano di assetto idrogeologico relativo al rischio frana è fermo, in Calabria, al 2001. Da allora i fenomeni di dissesto si sono evoluti e quel Piano del 2001, tra l’altro, riguarda solo il 20 per cento del territorio regionale».

Con quali implicazioni?

«Ciò significa che abbiamo tutto un territorio che non è mappato, atteso che i Piani di assetto idrogeologico servono, appunto, per avere una mappatura del rischio che consenta di pianificare bene uno sviluppo sostenibile del territorio come strumento di prevenzione. Occorre incentivare i Comuni a recepire la Pianificazione di bacino nei propri strumenti urbanistici, oppure renderla cogente normativamente. Questo consentirebbe finalmente di impedire le costruzioni nelle aree pericolose e di attuare uno sviluppo territoriale compatibile e sostenibile con l’assetto geologico del territorio. Ovviamente, oltre alla prevenzione, occorre pensare anche a ottimizzare la gestione dell’emergenza. In tal senso, bisognerebbe lavorare affinché tutti i Comuni abbiano i Piani di protezione civile aggiornati e disponibili per i cittadini».

Riguardo all’erosione costiera, di recente il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, ha parlato dell’esigenza di scrivere un nuovo masterplan. L’Ordine dei geologi della Calabria è stato coinvolto al riguardo? È stato investito il relativo Consiglio nazionale?

«Tutti gli Ordini territoriali, quindi anche quello della Calabria, hanno continue interlocuzioni con gli enti regionali. Per quanto riguarda il Consiglio nazionale, sui temi dell’erosione costiera siamo chiamati spesso dai vari enti ed anche nelle audizioni delle commissioni parlamentari. Nel merito, come ovvio, siamo sempre pronti a dare un supporto tecnico, non politico. Il fenomeno dell’erosione costiera coinvolge la Calabria con parecchie centinaia di chilometri di coste, ma è un problema nazionale. Più del 50% delle coste sabbiose in Italia è soggetto a erosione costiera, quindi ad arretramento della costa. In Calabria, poi, il fenomeno è ancora molto accentuato e minaccia edifici e infrastrutture in maniera evidente; si veda per esempio la ferrovia tirrenica, soprattutto nel tratto cosentino, e non solo, dove si registra una criticità molto diffusa».

Una criticità remota, che produce effetti visibili.

«Anche qui c’è un problema: spesso le infrastrutture non sono state realizzate in maniera adeguata alle caratteristiche evolutive geomorfologiche e meteomarine. Però, è pur vero che ci sono altri fattori in grado di influenzare il fenomeno erosivo, quali l’irrigidimento con opere idrauliche dei corsi d’acqua, con la conseguente riduzione dell’apporto solido verso il mare, che è quello necessario per alimentare le nostre spiagge».

Come intervenire?

«Quando si interviene su queste problematiche, ovvero rischi idraulici, da frana e da erosione costiera, bisogna avere sempre una visione di bacino e di unità fisiografica di riferimento, per l’interpretazione dinamica evolutiva dei sistemi. Spesso, invece, si interveniva per risolvere il problema puntualmente, senza visione di insieme, e lo si aggravava in un altro. Per la verità, la Calabria è stata una delle prime Regioni in Italia a dotarsi di un masterplan per l’erosione costiera, cioè di una visione d’insieme, suddividendo le aree costiere in zone omogenee». 

Restando all’acqua, per l’estate si annuncia purtroppo un grosso problema per la Calabria, salvo che prima non vi siano piogge consistenti. Comuni, villaggi turistici e aree di mare potrebbero rimanere a secco. Già il commissario del Consorzio regionale unico di bonifica, Giacomo Giovinazzo, ha invitato a diversificare le attività agricole. Nell’immediato che cosa si potrebbe fare per fronteggiare la carenza idrica diffusa prevista nell’estate ventura?

«Ho sempre delle remore a dare indicazioni per interventi tampone, perché in pochi mesi, direi ormai in pochi giorni, rispetto all’arrivo dell’estate, è difficile trovare soluzioni efficaci.  Negli scorsi anni – attualmente in regioni come la Sicilia, ma anche nella Pianura Padana, in particolare in Piemonte e in Emilia-Romagna – si è stati costretti a utilizzare le autobotti, anche in periodi non estivi, per le grandi e prolungate siccità. Come dicevo prima, bisogna impegnarsi per una pianificazione mirata. Se, poi, ci fossero dati affidabili sugli acquiferi calabresi, con campi pozzi già pronti, si potrebbe sopperire al deficit nei periodi di carenza idrica e in maniera sostenibile». 

Eppure, di acqua, secondo la voce del popolo, in Calabria ce n’è.

«Se andiamo a guardare i valori assoluti, in Calabria non manca l’acqua, ma non si riesce a programmare la gestione in maniera adattiva. Si tratta di un problema rispetto a cui i consorzi possono e devono avere anche un ruolo. Attualmente i consorzi sono in una fase di riforma, ma la realizzazione di nuove reti irrigue collettive a gravità, utilizzando ad esempio le acque delle dighe, darebbe un contributo sostanziale. E – sempre nel caso dell’irrigazione, che copre quasi il 60 per cento dell’uso della risorsa idrica – la riconversione degli impianti irrigui vetusti in impianti localizzati consentirebbe un risparmio della risorsa. Insomma, ci sono molte cose da mettere a posto, atteso che siccità e dissesto idrogeologico sono due facce della stessa medaglia. Bisogna anche pensare che in pochi anni, anche se attuiamo tutte le misure di mitigazione che riguardano la riduzione dell’emissione dei gas climalteranti nell’atmosfera, non riusciremo ad invertire la tendenza, ma si potrebbe limitare il grado di severità degli scenari futuri».

La politica fa il suo, con il gioco delle parti di pirandelliana memoria. Da tecnico, secondo lei il ponte sullo Stretto è un’opera rischiosa, è un’opera fattibile?

«Dobbiamo registrare che c’è una forte volontà, da parte del governo, di realizzarlo. La categoria dei geologi, che ha affinato progressivamente il proprio patrimonio di conoscenze tecnico-scientifiche anche grazie alle innovazioni tecnologiche e alle nuove geotecnologie, è ovviamente pronta a fare la propria parte e a offrire il proprio supporto specialistico per contribuire all’aggiornamento del progetto definitivo del 2011, dei modelli geologici, geomorfologici e sismotettonici di un contesto geologico così peculiare come quello dell’area dello Stretto di Messina e Reggio Calabria. Si tratta di un’area attiva dal punto di vista geodinamico, in passato oggetto di sismi di elevata magnitudo, come quello di Reggio e Messina nel 1908 o come quello di Noto nel 1693, addirittura di 7.3 della scala Richter. Insomma, abbiamo tutta una serie di sismi del passato che certificano l’elevato rischio dell’area».

E poi?

«Nello stesso tempo, dal punto di vista geologico, le due sponde sono oggetto di movimenti reciproci importanti, proprio per l’attività geodinamica e tettonica. In particolare, il tasso di sollevamento del tratto di costa calabrese è stimato pari a circa due millimetri anno, mentre quello siciliano è di mezzo millimetro all’anno. In altre parole, il ponte a campata unica più lungo al mondo collegherà settori di territorio che divergono – la Sicilia spostandosi verso nord-ovest, la Calabria verso nord-est – e che si sollevano con tassi differenti. Tali valori medi possono essere tollerati con adeguate soluzioni tecniche che dovranno tener conto anche degli spostamenti improvvisi che si possono registrare in occasione delle scosse sismiche di maggior energia».

Ne avete parlato con il ministro Salvini?

«Questi sono aspetti da considerare. Abbiamo ultimamente registrato che, nella relazione per l’aggiornamento del progetto definitivo, questi aspetti sono stati inseriti tra i tanti approfondimenti da svolgere. Di recente siamo stati a colloquio con il ministro Salvini, che ha già partecipato a un nostro convegno, organizzato a Reggio Calabria e Messina nel maggio scorso per ribadire la volontà di fornire un supporto tecnico-scientifico per il superamento delle criticità tecniche. Per questo abbiamo costituito un gruppo di lavoro, di cui fanno parte esperti geologi, sia del mondo accademico, sia del mondo della ricerca che del mondo professionale».

Vigili e collaboranti, insomma. Ma qual è il suo giudizio sintetico sul ponte?

«Stiamo quindi seguendo l’iter progettuale del ponte sullo Stretto e abbiamo chiesto un incontro tecnico con la società Stretto di Messina. Si tratta di una struttura unica al mondo per le sue dimensioni. L’Italia, quindi, superate le criticità di natura tecnica, sta accingendosi a realizzare un’opera che non ha eguali al mondo, in un’area con particolari caratteristiche dal punto di vista ambientale, geologico e sismico».

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