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IL CONTRIBUTO

La vera storia di Giuseppe Albano, “Il gobbo del Quarticciolo”

Nel 2009 per poter raccontare la storia di Giuseppe Albano, detto “Il gobbo del Quarticciolo”, che poi è il titolo di un mio saggio (Città del Sole, edizioni, Reggio Calabria, pagine 184), andai a…

Pubblicato il: 21/04/2024 – 9:34
di Bruno Gemelli
La vera storia di Giuseppe Albano, “Il gobbo del Quarticciolo”

Nel 2009 per poter raccontare la storia di Giuseppe Albano, detto “Il gobbo del Quarticciolo”, che poi è il titolo di un mio saggio (Città del Sole, edizioni, Reggio Calabria, pagine 184), andai a Roma per una settimana alla ricerca delle sue tracce. Passai, per esempio, un’intera giornata al cimitero del Verano a consultare l’archivio centralizzato dei cimiteri capitolini, che sono undici, in cerca della tomba di Albano che fu ucciso nella Capitale il 16 gennaio 1945 che non aveva compiuto neppure 19 anni (esattamente 18 anni e 8 mesi); infatti era nato a Gerace (RC) il 23 aprile 1926 e non come aveva scritto in un primo tempo Wikipedia il 5 giugno 1927. Tomba che non trovai e che tutt’ora è rimasta ignota. Non si tratta di pignoleria, ma è la descrizione della storia di un personaggio che ha passato tutta la sua breve vita nell’equivoco, nel mistero, nella contraddizione. Una storia che si presta a una doppia lettura. Da un lato, la vicenda umana di un personaggio sui generis che in età quasi adolescenziale si trovò coinvolto in eventi drammatici della storia italiana. La caduta del fascismo, l’armistizio, l’occupazione nazista di Roma e l’arrivo degli Alleati. Disadattato nelle favelas capitoline, egli fece prevalere il suo carattere ribelle guidando una banda di coetanei che agì approfittando del caos regnante in un regime ormai al tramonto.  Dall’altro lato, il sottobosco misterioso di un ambiente socio-politico aperto ad ogni contagio di apporti il più delle volte inconfessabili. È la parte, per così dire, minore della Resistenza romana che invece ebbe picchi alti di valore e partecipazione. Fu definito metà delinquente e metà partigiano. Forse un po’ e un po’. E anche altri appellativi. Ma il fratello, Mimmo, che viveva a Roma, ha sempre difeso la sua memoria additandone la generosità e l’idealità. Per questo reportage ho consultato tutto ciò che al momento era disponibile. Restano aperte tante questioni che potrebbero essere colmate esplorando documenti che, al momento, non erano reperibili o consultabili. Una potenziale fonte attendibile sarebbe l’archivio centrale dei Carabinieri. Il punto centrale da chiarire è come e attraverso chi Albano viene contaminato dalla guerra partigiana. Era consapevole di quello che faceva oppure il destino ha voluto che si trovasse nel momento sbagliato al posto sbagliato? Quando sono partito con questa storia, dopo che un amico di Locri (il professore Salvatore Futia) mi aveva segnalato la vicenda tumultuosa di Giuseppe Albano, non avevo neppure una sua foto. Tant’è che la foto della copertina del libro è stata disegnata dalla collega Alessia Principe che allora lavorava alle pagine culturali di “Calabria Ora”, della cui redazione io facevo parte occupandomi di politica regionale. Giuseppe Albano, figlio di Paolo Albano, muratore, e Rosa Garreffa, casalinga, vista l’estrema povertà della Calabria, si trasferisce a Roma con la famiglia nella borgata Quarticciolo, a sud di Roma, vicino a Centocelle, quartiere molto popolato. Ma prima di fare ricerche a Roma, cerco di scandagliare la vita calabrese del Nostro. A Locri e Gerace, sino al 1934 unico comune, cerco informazioni e persone che lo ricordano e/o l’hanno conosciuto. Mi procuro la foto della casa dov’è nato e dal Municipio mi faccio stampare l’atto di nascita.  Da un altro mio conoscente, il professore Aldo Guerrieri di Locri, che ne ricordava l’esistenza, mi faccio raccontare quale aneddoto. Come quando faceva il commesso in un negozio di tessuti con il compito di sorvegliare che qualche signora bene della città nascondesse furtivamente qualche scampolo di stoffa, oppure quando era garzone di barbiere. Un mestiere quest’ultimo che gli salverà la vita perché nel marzo del 1944, ai tempi delle Fosse Ardeatine, Giuseppe Albano, rinchiuso dop0 una retata nella famigerata via Tasso, sede della Gestapo, si salva la pelle proprio perché fa il vice barbiere, un mestiere che aveva imparato a Locri. Il ragazzo certamente era intraprendente, voleva distinguersi ad ogni costo: lo dimostrano le testimonianze di alcuni anziani di Locri e di Gerace che ancora lo ricordavano per la sua destrezza. Ma anche per la sua ira che si manifestava ogni qualvolta si tentava di schernirlo o, peggio, di toccagli la gobba a mo’ di portafortuna. Diventava collerico.  Che poi la sua non era una vera gobba; aveva una spalla che s’era incrinata a seguito di un incidente avuto da ragazzino. Però, era molto basso. Giuseppe Albano frequenta a Locri i primi quatto anni della scuola elementare con discreto profitto. Mi procuro copia dei registri di classe, da cui compare che, uno dei suoi compagni di classe, era Pasquale Barbaro che poi diventerà consigliere regionale della Dc nella prima consiliatura. Molti si sono occupati di lui. Ma quello che ha scavato più di tutti è stato Silverio Corviseri col suo libro “Il Re, Togliatti e il Gobbo”. L’ex deputato si è posto due quesiti. 1) «Furono i carabinieri a colpirlo a morte o, come si sospettò subito, i sicari di Umberto Salvarezza, falso leader di Unità Proletaria?». 2) «Si trattò dell’esecuzione sommaria del “pericolo pubblico numero uno” o dell’eliminazione di una “variabile impazzita” della prima trama eversiva dell’Italia post fascista?». Al mistero si aggiunge la circostanza che il reparto dei Carabinieri di Roma era comandato dal colonnello Luca che ritroveremo impegnato in Sicilia nella caccia al bandito Giuliano. La storia di questo giovane calabrese sbarcato a Roma adolescente e morto a soli 18 anni e 8 mesi scivola nel romanzo. E dal romanzo alla leggenda il passo è breve. Tuttavia riesce difficile immaginare come un giovanissimo emigrato, frequentando solo la scuola elementare, sradicato dal paese natio e catapultato nelle povere case delle borgate romane in un periodo di fame nera e di pidocchi, potesse avere una coscienza di classe, una pur minima consapevolezza politica che lo facesse partecipe della tragedia storica che si stava consumando con la caduta del fascismo.  A questo bisogna aggiungere che l’istinto picaresco applicato alle contingenze drammatiche della guerra faceva maturare le persone in breve tempo. Il coraggio era un passe-partout, attraverso il quale si finiva per diventare leader carismatico. E lui, da ragazzaccio di borgata, che aveva conquistato i gradi nella legge della giungla della sopravvivenza, in un humus di sottoproletariato e malavita, ebbe la ventura di incrociare situazioni sociali politiche militari che probabilmente non erano non solo alla sua portata ma neppure contestualizzabili in un empirismo occasionale. Insomma: diventato per necessità uomo, alle prese con i traffici della borsa nera, dei furti, delle rapine, intrecciò non solo la guerra partigiana ma anche quel grumo di ambiguità che già da allora solcava i rapporti politici in un panegirico di doppiogiochismo.  La pubblicistica che ne seguì si divise tra chi ne fece un delinquente tout court e chi un compagno comunista oppure socialista. Quante coloriture politiche gli furono affibbiate! Se Giuseppe Albano ebbe una qualche pur minima ed estemporanea iniziazione politica non gli poté venire che da un tale di nome Franco Napoli (nome di battaglia “Felice”) che sembra facesse parte del Partito socialista romano. Suo compaesano anche se in Calabria nessuno lo ricorda, né a Gerace o altrove ci sono tracce del suo passato. Probabilmente il Gobbo non fu per nulla un militante, però è vero che attraversò, molte volte senza saperlo, forse aiutato dallo stesso Franco Napoli, intricati labirinti politici, anche se le sue azioni furono fissate dai mattinali di polizia e dalla cronaca spicciola dei giornali del tempo piuttosto che dalla storiografia ufficiale che lo ha ignorato. Si disse allora che uno dei mestieri inventati dal Gobbo fosse quello di garantire il servizio d’ordine nei grandi comizi di Togliatti e Nenni. I giornali dell’epoca seguirono da vicino le sue gesta. “Il Tempo” di Roma, fondato da Renato Angiolillo (direttore) e Leonida Repaci (condirettore), si occupò ripetutamente attraverso un’inchiesta curata personalmente dallo scrittore di Palmi delle vicende del Gobbo. “Italia Libera”, organo del Partito d’Azione, così lo descrisse: «È il più leggendario. Il popolo ne racconta le gesta fremendo…», con seguito di particolari: «come quando, con un mitra e un sacco di bombe a mano, tenne in scacco in un intero plotone tedesco»; ed ancora nel 1944 il giornale azionista ripeté quel commento in dialetto: «Li romani spesso te danno er nome in base a li difetti der corpo. Pe Giuseppe andò proprio così, pe’ tutti era er gobbo der Quarticciolo. Emigrato a Roma co’ tutta la famija, finì dietro a le sbarre la prima vorta nel 1942 pe’ via de ‘n furto. Ma la ggente lo amava perché quer pischello divideva la refurtiva un po’ co’ tutti. Era er Robbin Hudd de noantri. Poi un giorno finì pe’ aruolasse in una specie de brigata e addirittura finì sul giornale: “Ed ecco su una porta uscire un gobbo armato di moschetto e di un tascapane di bombe. Si piazza in mezzo a un quadrivio e lancia una bomba. Poi, tranquillo, tira un primo colpo di moschetto. I tedeschi rispondono. Il Gobbo tira un’altra bomba e un altro colpo. I tedeschi gli sparano con la mitragliatrice. Ma il gobbo è fatato: nessun colpo lo raggiunge. E continua a tirar bombe e a sparare […]”». Ma la stampa cattolica si divise nel giudizio complessivo su questo strano personaggio che presentava diverse sfaccettature. L’Osservatore Romano, ad esempio, rimase prudente nel giudicare quegli eventi. Ci furono resoconti parziali, alcune volte interessati, persino falsi come è tradizione della spy story italiana. In quel caos molte azioni gli furono appiccicate post mortem. Ed il racconto orale divenne ben presto leggenda. La verità è che di lui, nonostante si sia cercato di scavare, non si sa molto sebbene siano stati scritti diversi libri che, a loro volta, hanno ispirato alcune rappresentazioni teatrali. Sono anche stati girati due film mutuanti le sue avventure. Una sorta di melodramma ispirato da un’iniziale neorealismo, però molto documentato, riguardò il film diretto da Carlo Lizzani, “Il Gobbo” del 1960 (con Bernard Blier, Anna Maria Ferrero, Ivo Garrani e Pier Paolo Pasolini nella parte de “Er Monco”); gli sceneggiatori fecero diventare il Gobbo Alvaro Cosenza, un giovane dal volto attraente e con accento marcatamente romanesco, una specie di Robin Hood romantico e barricadero, benefattore dei poveri, avvezzo al sangue e all’amore. Nel film di Lizzani il Gobbo ingaggia una battaglia personale con un commissario di fede fascista – interpretato da Ivo Garrani -, padre della ragazza (una bellissima Annamaria Ferrero) – di cui si era innamorato: il personaggio del commissario è realmente esistito, il maresciallo Spatafora. Dai resoconti giornalistici si ricava che il Gobbo pare si fosse fidanzato con la quindicenne Iolanda Ciccola, conosciuta al circolo proletario. Tempi difficili: nei teatri romani recitavano Totò, Eduardo, Peppino e Titina De Filippo, e loro timide parodie nei confronti delle dittature fasciste e naziste portarono i grandi artisti nelle fauci delle liste nere delle SS. I celebri attori si dovettero nascondere per evitare di essere deportati in Germania nei vagoni piombati della Gestapo. Dunque, Albano a 14 anni si trasferisce a Roma con la famiglia in cerca di fortuna. Per un po’ di tempo fa il garzone in una farmacia, ma poi si tuffa nel serraglio alternativo della Corte dei miracoli assumendo il ruolo di capo-banda di una microcriminalità che lievitava giorno per giorno. Già nel 1942, all’età di 16 anni, il Gobbo ha guai con la polizia che l’accusa di ripetuti furti. In quel tempo la Capitale, trasformata in “Città aperta” per evitare di essere bombardata, era rifugio per i tanti immigrati che provenivano soprattutto dal Sud. Interi nuclei familiari trovarono riparo nelle borgate romane che cingevano a cerchi concentrici il nucleo urbano.  Roberto Battaglia nella “Storia della Resistenza italiana” (Einaudi, 1967) ad un certo punto scrisse: «…e infine la Roma assurda delle borgate, della miseria tragica e senza speranza, in cui fermenta uno spirito di ribellione simile a quello che s’era manifestato nelle Quattro Giornate napoletane. Le borgate Tor Pignattara, Centocelle, Quadraro, Quarticciolo, Gordiani, Giardinetti minacciano le vie di comunicazione della capitale e sono in stato d’assedio permanente: il tedesco arriva fino al punto di sbarrare l’accesso istituendovi posti di blocco; le prime razzie fasciste vengono respinte a furor di popolo, come quando verso la metà di febbraio, è dato l’assalto al commissario di PS di Tor Pignattara e liberare i detenuti». In quell’ambiente muove i primi passi Giuseppe Albano.  Giorgio Amendola in “Lettere a Milano” (Editori Riuniti, 1973), non cita il Gobbo ma rende chiaro quel contesto romano con una prosa molto scorrevole e accattivante, oltre che autorevolmente pregnante per il ruolo che egli ebbe come dirigente eccelso del Pci. Ma tutta la storiografia del Pci, da Paolo Spriano in poi, non tratta la storia del Gobbo, non si sa se per rimozione oppure perché ritenuta marginale rispetto ai grandi eventi della Resistenza italiana.  A Roma, nel 1944, avvengono due fatti particolarmente cruenti: il 23 marzo si consuma, ad opera dei Gap, l’attentato di via Rasella (di cui Amendola si assume la paternità politico-militare dell’attacco che egli stesso definì «azione di guerra») in cui muoiono 32 soldati tedeschi. Nella mia ricerca romana, ho trovato tracce consistenti del Gobbo nelle vecchie librerie del centro, nella sede nazionale dell’Anpi e in via Fornovo 12 nel quartiere Prati dove il Gobbo fu ucciso proprio mentre usciva dall’androne del palazzo in cui c’era la sede dell’Unione Proletaria e ancora prima del Fascio, mentre oggi è la sede di una Asl. Sede che ho visitato come tappa conclusiva del mio viaggio romano. Giuseppe Albano cade in un agguato. Due le versioni: una ufficiale parla di un conflitto a fuoco con i Carabinieri che sembra lo cercassero per la morte di un militare  inglese, e l’altra, di controinformazione, narra di un colpo alle spalle sparato da tale Giorgio Arcadipane, detto “Er Cipolletta”, già spia dei tedeschi tra di detenuti del carcere di Regina Coeli, un killer che sarebbe stato assoldato  dagli infiltrati del circolo proletario “Bandiera Rossa” (che Paolo Spriano, nella V volume della Storia del Partito comunista italiano, così descrive: «A Roma la dissidenza di ”Bandiera Rossa” si autoliquida nel giro di un mese»).  “Bandiera Rossa” ufficialmente contestava, da posizioni massimaliste, o forse anche troskiste, il presunto attesismo del Comitato di Liberazione Nazionale (Cnl), ma in un comizio di Togliatti al teatro Brancaccio, dopo che gli Alleati erano entrati a Roma, i militanti del circolo proletario, andati là per contestare la linea del Pci ritenuta troppo morbida, finirono per applaudire; «questi so’ meglio dei carabinieri», gridò un proletario chiamato “Er Torino”.  Ancor prima si inserisce, in maniera particolare e determinante, la figura di Umberto Salvarezza, detto “Er Guercio”, veneziano, di professione pubblicitario, squadrista della prima ora, truffatore, millantatore, estortore, doppiogiochista, più volte arrestato per vari reati, sempre salvato per il rotto della cuffia, protetto da quella rete continuista che passava dal fascismo all’antifascismo attraverso il mantenimento di quella classe dirigente sempre in sella, monarchica, clericale, segreta, massonica (la parte deviata, già da allora), che evitò l’epurazione grazie agli intrecci tra i vecchi servizi segreti fascisti disciolti, l’Ovra, e i nuovi,  tra cui il Sim, che andavano ricostruendosi riciclando gran parte del personale esistente. Da non perdere di vista Salvarezza-Guercio che, quando gira il vento, per salvarsi, gioca anche la carta dell’infiltrato comunista nel circolo proletario, strumentalizza il Gobbo, usandolo cinicamente per i suoi loschi fini. Con la morte di Albano si avvia la lunga stagione dei misteri italiani, dei servizi segreti deviati, degli intrecci trasversali, dei trasformismi a buon mercato e di quant’altro. Ad un certo punto, il Gobbo, che si era allargato troppo, diventa un personaggio ingombrante per un ordine pubblico che tentava di ricostituire democraticamente gli apparati partendo dalle macerie della guerra. La ritrovata legalità, ancora in embrione, non poteva tollerare presenze così scomode. La confusione era tanta ed era difficile portare ordine in un ambiente sconvolto dalle note vicende belliche. Né i doppiogiochisti riuscivano a tenere la mordacchia ad un ribelle patentato. Un groviglio indecifrabile. Ma al netto delle cose che gli sono state attribuite c’è da chiedersi come Giuseppe Albano, per la sua condizione sociale, per il contesto in cui è vissuto, ma soprattutto per la sua giovanissima età, abbia potuto essere protagonista di una vicenda così complessa, intricata, intensa, sempre borderline sul crinale del pericolo. C’è molto racconto orale tramandato nel tempo, sebbene caricato di enfasi in certi passaggi, che però converge in un’unica direzione. La sua straripante figura. Ma ci sono anche i documenti che testimoniano che il personaggio, nel suo genere, è stato fuori dal comune. Non si tratta di farne un mito, ma sicuramente, a suo modo, egli si è fatto largo nella giungla della vita con una capacità unica, pagandone il prezzo estremo.

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