Andremo, l’8/9 giugno, a votare per l’Europarlamento, ma l’entusiasmo è il grande assente. La politica si muove guardando – i partiti di maggioranza – alle elezioni europee per risaldare il successo del voto politico del 2022 e – le opposizioni – per dimostrare una resilienza che in Europa gli dia agibilità in una maggioranza “Ursula” probabilmente senza la von der Leyen.
Se il voto di giugno è inteso come un sondaggio sul gradimento dei numeri uno della politica domestica, facile prevedere alte percentuali di astensionismo; e, a urne chiuse, il sopraggiungere dello sciame retorico che lamenta l’ulteriore disaffezione al voto.
Il dibattito di casa nostra, teso a individuare candidati trainanti, in una logica di fredda competizione elettorale, “scegliendo dalla televisione come se gli elettori fossero follower” e spesso trascurando i legami con i territori, non infiamma il cuore dei cittadini.
Non li rende consapevoli della necessità di avere un’Europa protagonista nelle sfide del XXI secolo, né dell’urgenza di colmare storiche lacune che la relegano ai margini dello scacchiere internazionale.
La percezione collettiva dell’Europa, già nel 2019, era di un corpaccione tecnocratico che elargisce privilegi a chi ne fa parte, ma che non incide nella vita dei popoli. Figurarsi nel 2024. E’ d’altronde arduo per l’Europa guadagnarsi la fiducia dei cittadini, se nel bilancio di fine legislatura figura l’irrilevanza nei rivolgimenti geopolitici globali, l’impotenza nella “terza guerra mondiale a pezzi” e l’incapacità di superare la frammentazione che le impedisce di darsi strategie coese, dai diritti civili alla rivoluzione informatica e biotecnologica.
Dopo il “Next Generation Ue” con cui l’Europa, mettendo fine alle politiche di austerità che hanno inasprito le crisi economiche e il disagio sociale, ha dato segnali di rinsavimento, ci si attendeva una nuova configurazione della sua governance. A partire dall’elezione diretta del presidente della Commissione (il premier dell’Europa), “per trasformare, con l’istituzione di una circoscrizione a livello dell’Unione, le elezioni in una vera elezione europea, invece della somma di 27 elezioni nazionali distinte”.
E ci si aspettava un supplemento di responsabilità, per concretizzare l’unione fiscale, una politica estera unica e un esercito europeo. Tutto ciò, per rinvigorire (e aggiornare) i valori fondanti del vecchio continente evocati dallo scrittore Paolo Rumiz nel suo “Canto per Europa”. E renderli credibili, dimostrando ai cittadini, per esempio, che l’Europa è in grado di governare i flussi migratori, di mettere in sicurezza i suoi confini e dare un contributo effettivo ai negoziati di pace. Ma, a quanto pare, gli “Stati Uniti d’Europa” possono ancora attendere.
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