E anche questo 25 Aprile scivolerà via senza rendere giustizia a Dante Castellucci. Alias: “Facio”, comandante partigiano calabrese. Ucciso non dai nazifascisti, ma, dopo un processo farsa, da alcuni suoi compagni.
Nel 2007, il 63mo anniversario della sua fucilazione, un gruppo di storici – tra cui Claudio Pavone, Alessandro Portelli, Paolo Pezzino, Alberto Cavaglion e Giovanni De Luna – ha inviato una petizione al presidente della Repubblica e ai ministri di Grazia e Giustizia e della Difesa.
L’intento dell’appello, che ebbe il patrocinio della Regione Calabria: “l’assegnazione della medaglia d’oro alla memoria, perché dai documenti emerge la verità sulla morte di Dante Castellucci e l’eroismo di un partigiano noto e stimato da tutti”.
L’assegnazione della medaglia d’oro, argomentavano gli storici, “si rende più che mai necessaria dal momento che la figura di Castellucci, che combatté accanto ai fratelli Cervi e si distinse per importanti azioni partigiane nel Parmense e in Alta Lunigiana, rimane tuttora appannata, nonostante la medaglia d’argento conferitagli nel 1963, la quale conteneva una motivazione non rispondente a verità”. Anzi, per lo storico Carlo Spartaco Capogreco era “un falso in atto pubblico”.
Sono trascorsi diciassette anni dalla richiesta degli storici. Ottanta dalla fucilazione di un eroe calabrese della Resistenza, ma la medaglia d’oro alla memoria di “Facio” rimane nel cassetto.
Un dossier sui 70 anni della Resistenza pubblicato nel 2015 da “Micromega”, rievocava, attraverso le vicende rocambolesche di Laura Seghettini, “soldato” nei lunghi mesi di montagna nel battaglione Picelli, la storia di un partigiano calabrese dallo sguardo limpido. Di quelli che non tollerano intrighi e imbrogli. E li fermi solo se gli spari. Infatti, gli hanno teso una trappola e l’hanno ammazzato. Altri partigiani, dopo un processo sommario. Al padre dei fratelli Cervi, “Facio” diceva: “Quando sarà finita la guerra, vi inviterò al mio paese a mangiare fichi d’India”. Non gliel’hanno lasciato fare.
E’ Laura Seghettini, “la maestra col fucile” nata a Pontremoli (Lunigiana) nel ’22, figlia e nipote di antifascisti della prim’ora, che, riandando indietro con la memoria, si sofferma su un uomo “all’inizio scostante con me”.
Quando la ventiduenne si presentò, per sfuggire al carcere fascista, al battaglione “Picelli” (maggio ’44) dovette aspettare, prima d’essere intruppata, che “Facio” rientrasse al campo da una missione. Lui la guardò e, temendo che in mezzo a tutti gli uomini si sarebbe trovata male, disse: “Bah, in una situazione del genere…” E lei: “Io mi rendo conto, però non vorrei finire in galera o in un lager tedesco perché ti disturba la mia presenza. Sta tranquillo, fossi tu o qualcun altro che allunga le mani verso di me…ve le taglio”. Lui rispose: “Sei sgarbata”. Ma assentì.
“Facio” è il comandante Dante Castellucci nato a Sant’Agata d’Esaro, il 6 agosto 1920, in Calabria. Emigrato in Francia con la famiglia, dopo aver combattuto sulle Alpi e lungo il Don, diserta. Sceglie di combattere per la libertà.
Inizialmente, è il braccio destro di Aldo Cervi, uno dei sette fratelli Cervi di Campegine, assassinati “dal piombo fascista al poligono di tiro di Reggio Emilia all’alba del 28 dicembre del 1943”. Poi assume il comando del battaglione “Guido Picelli” della brigata Garibaldi parmense “in cui si distinse per il carisma e le straordinarie capacità operative”.
Prese il nome di un brigante calabrese che avversò il Borbone e la spavalderia dei Piemontesi. Sull’Appennino tosco – emiliano, “Facio” mise a segno straordinarie azioni militari e divenne una leggenda vivente per le comunità della Lunigiana e della Valle del Taro. Le sue gesta sono state ricordate più volte dal Comitato unitario della Resistenza, dall’Anpi di Parma e dal Museo audiovisivo della Resistenza. Indimenticabili la sua astuzia e la sua generosità nella battaglia del Lago Santo. Erano in nove. Dopo due giorni di combattimenti, fecero scappare un reparto di un centinaio di nazifascisti..
Laura Seghettini divenne la sua compagna. Racconta: “Facio era un uomo saggio, buono, prudente, da buon calabrese anche un po’ diffidente, e poi era colto suonava bene il violino, faceva teatro ed era un buon parlatore: l’innamoramento, non so neanche se …E’ venuto cosi in un breve momento, ma che diventa un’eternità quando si ha la morte vicina giorno e notte”.
Seghettini ne traccia il profilo di partigiano con parole semplici: “Era stato a Campegine con i fratelli Cervi e arrestato insieme a loro, riuscì a scappare dal carcere, ma non riuscì nel suo intento di liberarli prima della fucilazione. Era molto amato dai suoi uomini ed anche dalla popolazione…Era stato uno dei protagonisti della battaglia del Lago Santo. A luglio venne processato, a sorpresa, da altri partigiani per un contenzioso su un lancio paracadutato dagli alleati e destinato ad un altro gruppo di partigiani (poi fu dimostrato che “Facio” si trovava da tutt’altra parte). L’accusa di sabotaggio e tradimento era palesemente falsa e ad orchestrare tutto il processo c’era Antonio Cabrelli, un antifascista che aveva sicuramente delle brame di potere. Io arrivai verso la fine del processo e trovai ‘Facio’ che non reagiva alle accuse, era come ammutolito, allora gli dissi: ‘ma perché non ti difendi?’ E lui ‘Io non mi difendo dai compagni, se ritengono che abbia sbagliato, pagherò’. E lo stesso rispose agli uomini che dovevano fucilarlo all’alba del 22 luglio (località: Adelano di Zenri), quando gli proposero di scappare: ‘Sono fuggito dai fascisti ma non scappo dai compagni’. La sua fucilazione ci ha sconvolto tutti. Io non so se sarebbe durata con “Facio”, ma quando stava andando alla fucilazione si è girato verso di me e mi ha detto: ‘Vedi che non sporchino troppo il mio nome’. Per questo io ho continuato in tutta la mia vita a chiedere di fare chiarezza su quella morte, lo dovevo a quel povero ragazzo che ha fatto una fine ingiusta. Dopo qualche anno sono stata in Calabria a casa di ‘Facio’ per salutare la madre…”
In un’altra circostanza, Laura Seghettini ha ricordato: “All’alba lo hanno preso e lo hanno portato fuori. Ho saputo che ha gridato ‘Viva l’Italia’. No, non si doveva uccidere un uomo così. Aveva solo venticinque anni”.
La conclusione di questo articolo è ispirata da un libro che ha il merito di fare luce sulla “vera storia del partigiano Facio”. S’intitola “Il piombo e l’argento” (Donzelli editore).
Lo ha scritto nel 2007 lo storico Carlo Spartaco Capogreco, impegnato sul fronte scabroso delle vicende della seconda guerra mondiale, “dimostrando che è possibile indagare nelle pieghe e nelle piaghe più controverse della Resistenza, accettandone le zone d’ombra, senza intaccare l’alto significato della lotta per la Liberazione”.
Dunque. E’ il 19 maggio 1963: 19 anni dopo la fucilazione di “Facio”. Nel piazzale della Caserma Luigi Settino di Cosenza prendono avvio le “Giornate del Decorato al Valor militare e dell’Orfano di guerra”. Il generale Di Cerbo, comandante della XV zona militare e del presidio di Cosenza, conferisce la medaglia d’argento alla memoria di Dante Castellucci “della classe 1920 di Sant’Agata d’Esaro, caduto eroicamente a Pontremoli il 22 luglio 1944”. Concetta Arcuri Castellucci (la madre di “Facio”) si ferma al cospetto del generale che, stringendosela al petto, procede alla consegna.
Scrive Spartaco Capogreco: “La madre di Facio riprende la via del ritorno portandosi a casa la luccicante medaglia ‘alla memoria’, che in realtà – a giudicare da quanto scritto nel testo della motivazione – sembra più una medaglia all’oblio concepita per cancellare il dato storico che Dante Castellucci, in realtà, non è caduto combattendo contro il nemico”.
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