VIBO VALENTIA In appello il castello accusatorio della Distrettuale antimafia di Catanzaro aveva retto, con 67 condanne emesse, confermando in larga parte la prima sentenza, rideterminando solo alcune delle condanne già emesse nel processo celebrato con rito abbreviato, illustrandone i dettagli nelle quasi 1.600 pagine di motivazioni.
I giudici, nella sentenza, avevano dichiarato la nullità della sentenza del gup emessa nei confronti di Francesco Gasparro (difeso dall’avvocato Giuseppe Di Renzo) per tutti i reati e per alcuni reati di Pasquale Gallone e Domenico Macrì, con restituzione degli atti al giudice di primo grado per nuovo giudizio. Assolti, invece, Michele Fiorillo detto “Zarrillo” per non aver commesso il fatto, Carmela Cariello perché il fatto non sussiste e Pasquale Tavella perché il fatto non costituisce reato, rispettivamente condannati nella prima sentenza a 5 anni, 4 anni e 6 mesi e un anno e 4 mesi. Confermata l’assoluzione anche dell’imprenditore e avvocato Vincenzo Renda, considerato dall’accusa «partecipe nell’articolazione dei Mancuso di Limbadi».
Punto cardine attorno al quale ruota tutto il processo è senz’altro la riconosciuta esistenza «della cosiddetta unitarietà della ndrangheta», scrivono. Un sistema «fatto di regole comuni e di una certa necessità di collegamento tra le varie articolazioni tra loro e tra tutte queste ed il cosiddetto crimine, soprattutto per risolvere controversie di rilievo». Per i giudici, inoltre, «non si tratta mai di una dipendenza operativo-gerarchica delle varie locali dalla struttura madre, ovvero “il Crimine di Polsi”» esse infatti «mantengono una sostanziale autonomia operativa, tipica della struttura criminale calabrese, bensì di una dipendenza formale, finalizzata a garantire, da un lato, l’esistenza di organi di raccordo ultra-provinciali, necessari al perseguimento degli interessi degli associati, dall’altro ad impedire la proliferazione indiscriminata e non ortodossa di tipologie di cariche, doti/ riti alternativi, che porrebbero un grave nocumento alla sicurezza delle informazioni che è alla base dell’interazione tra le diverse componenti dell’associazione». I giudici nelle motivazioni ricordano come in alcuni momenti «vi siano state criticità tra le varie articolazioni territoriali ed anche guerre aperte per il controllo del territorio o ancora, distacchi di gruppi rispetto alla cosca madre» l’esistenza di un sistema unitario associativo e di regole comuni e gerarchie comunque «non è in contrasto con le possibili guerre interne alle singole articolazioni, come non risulta in contrasto con l’unitarietà della ‘ndrangheta».
Nelle motivazioni, i giudici passano alla disamina dei vari locali di ‘ndrangheta che insistono sul territorio della provincia vibonese. Come, ad esempio, il locale di Zungri, la cui esistenza era stata riconosciuta dalla sentenza della Cassazione nel 2020, «riguardante la posizione cautelare di Nicolino Pantaleone Mazzeo», parlandi di «una ben definita ‘ndrina Accorinti, quale autonoma realtà del panorama criminale vibonese e dante vita alla “Locale di Zungri”». Per quanto riguarda Vibo Valentia, invece, secondo i giudici il fenomeno si palesa «unico» con la convergenza delle famiglie «Mancuso, Lo Bianco-Barba e successivamente il gruppo di Mantella e poi la ’ndrina dei Ranisi (Camillò-Pardea-Macrì) nata da una recente scissione dalla cosca Lo Bianco-Barba», impegnate a contendersi le zone di influenza.
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Nel lungo elenco di locali di ‘ndrangheta emerse nel processo e riconosciuti dai giudici c’è quello legato alla cosca Fiarè di San Gregorio d’Ippona, «promossa e diretta da Rosario Fiarè, alleata di quella egemone dei Mancuso di Limbadi» è già accertata in via definitiva nel processo “Rima” che ha riconosciuto «la responsabilità associativa di Saverio Razionale, di cui il nipote Gasparro Gregorio “Ruzzu” è venuto emergendo in questa sede come braccio destro e luogotenente durante le sue assenze dalla Calabria». Per quanto riguarda Sant’Onofrio, invece, nonostante «il processo “Uova del Drago” si fosse concluso con l’assoluzione» precisano i giudici «in relazione alla contestazione associativa del clan Bonavota relativamente al periodo antecedente al maggio 2009», quelli che all’epoca erano elementi insufficienti ora sono stati arricchiti «di nuovi contributi. Basti citare, per esempio, le dichiarazioni dei collaboratori Andrea Mantella, Emanuele Mancuso, Vincenzo Marino, Raffaele Moscato, Giuseppe Giampà, le cui propalazioni sono state riscontrate dal contenuto di numerose intercettazioni». Nessun dubbio, ancora secondo i giudici, sull’esistenza di un locale di ‘ndrangheta a Pizzo «articolazione territoriale subordinata al locale di Sant’Onofrio, capeggiata da Salvatore Mazzotta, annoverando tra i sodali Luca Belsito e Onofrio D’Urzo». Secondo i giudici, poi, l’esistenza della ‘ndrina di Maierato e Filogaso la sussistenza della ‘ndrina dei Cracolici, che opera da lungo tempo sui territori di Filogaso e Maierato, «è desunta dagli elementi ricavabili dall’informativa dei carabinieri del 26 luglio 2018» ma anche dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia quali «Bartolomeo Arena, Francesco Costantino, Andrea Mantella e Giuseppe Giampà, che si riscontrano vicendevolmente e che sono state riprodotte anche nella sentenza impugnata, dalle quali si trae anche prova dell’inserimento di Cracolici Domenico nella consorteria». (Gi.Cu.)
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