COSENZA Il tema resta sempre quello: il timore di far crescere il divario economico e conseguentemente sociale tra le due aree del Paese. Un processo che verrebbe innescato dal varo della cosiddetta “Riforma Calderoli”. Si tratta del disegno di legge sulle disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario la cui discussione generale è calendarizzata domani, lunedì 29 aprile, alle 10 alla Camera dei deputati. Rischi denunciati a più voci negli ultimi anni e sottolineati per ultimo dalla Svimez nel corso dell’audizione in commissione parlamentare a Montecitorio sul federalismo fiscale. Timori che, a fronte di un’accelerazione così repentina impressa ad una riforma su materie tanto delicate, si finisca per lasciare indietro aspetti decisamente importanti per il processo di crescita dell’intero Paese. Una sorta di rottura dell’unità nazionale che si è sempre basata su principi di solidarietà territoriale. Base fondante di uno Stato e che quel processo di regionalizzazione spinto, potrebbe compromettere. Ne è pienamente consapevole Rosanna Nisticò, professoressa ordinaria di Economia Applicata, all’Università della Calabria che denuncia il «disegno politico» di demolire l’unitarietà dell’Italia. E per la docente dell’Unical, la Calabria potrebbe pagare un prezzo altissimo. Se la regione dovesse aderire, finirebbe per «aggravare – sottolinea -l’impasse decisionale e gestionale, moltiplicare inefficienza e inefficacia».
Professoressa, sono fondati i timori per l’introduzione in Italia dell’autonomia differenziata?
«Altro che timori! Ormai è chiaro che il disegno politico dell’autonomia differenziata è destrutturare lo Stato unitario, cambiare radicalmente l’assetto e la gerarchia dei poteri decisionali dell’attuale ordine costituzionale. Si prefigura un’altra Italia, un’altra architettura istituzionale, un’altra geografia territoriale, un’altra società. Con l’aggiunta di una grande disuguaglianza alle disuguaglianze esistenti: un’Italia “patchwork”. Rischiamo di diventare una repubblica a “sovranità regionale”, sebbene entro una cornice nazionale di uno Stato centrale sottile, dal Governo e Parlamento con poteri ridimensionati. Si profila un potenziale, massiccio, spostamento di poteri e di risorse dallo Stato alle Regioni, pur avendo già, il nostro paese, livelli di decentramento politico-amministrativo tra i più alti in Occidente. Il rischio più grande è la rottura di fatto dell’Unità nazionale. La “secessione dei ricchi”, come efficacemente qualificata da Gianfranco Viesti, si configura come un atto di infedeltà delle classi dominanti all’unità della nazione. Non è un’idea elettorale della sola Lega, ma anche di una parte di gruppi trasversali di politici di opposizione, e soprattutto di importanti e influenti ceti produttivi e professionali del Nord che considerano il Mezzogiorno una palla al piede dell’economia italiana. È scoraggiante assistere ad un tale disegno di rottura dello Stato attraverso l’utilizzo di artifici legislativi, accordi e intese con singole regioni, scambi di mosse politiche tra partiti, come quello recente, più o meno esplicito, tra premierato e autonomia differenziata. È così che si vorrebbero migliorare gli Stati? È possibile che trasformazioni istituzionali così radicali, che implicheranno impatti consistenti sull’intera società nazionale, debbano essere decise da un piccolo gruppo di politici e amministratori interessati unicamente al proprio consenso elettorale all’interno dei propri territori?».
Quali conseguenze comporterebbero per la Calabria?
«Al momento non è obiettivamente possibile fare previsioni attendibili. Molto dipende da come sarà congegnata la legge di approvazione definitiva e, ancor più, da come si attuerà, a valle, l’intesa con la Regione “apripista”. Il cammino è ancora lungo e complicato e i nodi applicativi da sciogliere sono ancora molti e incerti. Poi dipenderà, ovviamente, dalle materie e dalle competenze aggiuntive che la Calabria deciderà di chiedere. In ogni caso, lo scenario è tutt’altro che incoraggiante. La nostra Regione, è a tutt’oggi, com’è noto, un’istituzione fragile, che non ha ancora stratificato al suo interno capacità e routines diffuse e robuste di programmazione, progettazione, gestione, monitoraggio e valutazione, con visibili conseguenze sulle modeste capacità di spesa e di innescare processi organizzativi innovativi, sulle lungaggini decisionali, sulla bassa produttività dell’apparato burocratico nel suo complesso, mostrando un impegno focalizzato più sugli adempimenti che sui risultati, ovvero sugli impatti dei provvedimenti sul miglioramento del benessere collettivo. Non possiamo nascondercelo: la qualità e quantità delle attività ordinarie di competenza della Regione, soprattutto in settori chiave della vita pubblica come la sanità, l’ambiente, la difesa del suolo e del paesaggio, le attività economiche e produttive, le politiche abitative, urbane e del welfare sono piuttosto scarse, in relazione ad altre amministrazioni regionali. Così come non possiamo nascondere la ridotta capacità a impegnare e investire le risorse ordinarie e aggiuntive europee nei tempi programmati. In queste condizioni, il rischio palese dell’attribuzione di nuove competenze aggiuntive, se la Regione Calabria decidesse di chiederle, sarebbe aggravare l’impasse decisionale e gestionale, moltiplicare inefficienza e inefficacia. Con il rischio ancora più grande di accrescere la distanza dalle regioni più performanti e più pronte ad accogliere nuove competenze, con conseguenze negative per la qualità della vita dei calabresi, soprattutto di quelli più vulnerabili».
Si teme una riduzione di trasferimenti, come potrebbero essere compensati?
«Per il finanziamento delle nuove funzioni, il Ddl Calderoli prevede che le risorse da attribuire a ciascuna regione siano definite da una Commissione composta in modo paritario dallo Stato e dalla regione stessa e finanziate attraverso la compartecipazione al gettito dei tributi erariali. Per la medesima ragione, nessun impegno concreto è previsto a favore della perequazione inter-regionale. Sul punto, il Ddl fa propria la rivendicazione regionale del cosiddetto “residuo fiscale”, per cui le regioni che pagano tasse più di quanto ricevono in spesa pubblica avrebbero il diritto di trattenere almeno parte delle risorse versate al fisco. Sicché i cittadini che vivono in una regione più ricca dovrebbero ricevere più servizi e di migliore qualità degli abitanti delle regioni più povere. Una rivendicazione del tutto illogica perché a pagare le tasse sono le persone, sulla base dell’ammontare del loro reddito. Un cittadino ricco della Lombardia paga le stesse tasse di un cittadino calabrese altrettanto ricco. Il problema è che l’incidenza dei ricchi in Lombardia è di gran lunga più alta dell’analoga incidenza in Calabria, ed è dunque del tutto fisiologico che i primi contribuiscano in maniera più intensa dei secondi al gettito fiscale nazionale. È evidente che quanto maggiore sarà il trattenimento delle tasse dei cittadini delle regioni ricche per finanziare i propri servizi locali, tanto meno saranno le tasse trasferite allo Stato, con l’inevitabile conseguenza che il centro avrà meno risorse per perseguire politiche di riequilibrio sociale e territoriale. Sicché, stante la forte e patologica dipendenza della nostra regione da trasferimenti pubblici esterni, il loro inevitabile ridimensionamento avrebbe effetti depressivi sul livello di reddito e di benessere dei calabresi e sul benessere collettivo in termini di contrazione di servizi essenziali di cittadinanza, peraltro già oggi scandalosamente più bassi in termini di dotazione, varietà e qualità dell’offerta. Siamo un Paese diviso da diseguaglianze sociali e territoriali profondissime e crescenti: un solo dato su tutti, forse il più drammatico, la differenza di tredici anni nell’aspettativa di vita in salute tra la Calabria e Bolzano. Davvero la priorità è acuire ulteriormente le differenze, anziché impegnarsi a ricostruire almeno un po’ di uguaglianza?».
A questo proposito si parla di garantire la copertura di alcuni capitoli ad esempio i Lep con le risorse dei Fondi strutturali. Cosa comporterebbe per la regione un’ipotesi del genere?
«Come è noto, l’art. 117 della Costituzione riformato nel 2001, prevede che i Lep siano definiti con legge statale per tutti i diritti civili e sociali, al fine di fissare lo standard minimo delle prestazioni da garantire, nel rispetto del principio di uguaglianza, su tutto il territorio nazionale. Nei fatti, però, definire i Lep è tecnicamente piuttosto complicato e non necessariamente assicura qualità comparabili dei servizi essenziali. Prova ne è che, anche dove sono stati fissati – per il diritto alla salute (Lea: livelli essenziali di assistenza) – piuttosto che costituire il livello minimo al di sotto del quale non andare, si sono, in realtà, rivelati più un obiettivo verso il quale tendere. La legge di bilancio 2023 prevedeva che parte dei Lep mancanti fosse definita entro un anno dal Governo. Allo scopo, è stata istituita una Cabina di regia, composta dai ministri competenti e dai presidenti della Conferenza delle regioni, delle province e dei comuni, a cui è attribuito il compito di individuare i Lep. In particolare, tale Cabina dovrà effettuare una ricognizione delle funzioni statali e della relativa spesa storica, individuare le materie riferibili ai Lep e, infine, determinarli nell’ambito degli stanziamenti di bilancio vigenti, senza prevedere un adeguato fondo perequativo per finanziare le regioni sottodotate di servizi essenziali. È, in sostanza, come se si stabilissero i bisogni in base al bilancio esistente, e non il bilancio necessario per soddisfare i bisogni esistenti. Nel caso in cui la Cabina di regia non dovesse rispettare i tempi, il Governo nominerà un Commissario incaricato di compiere i passaggi mancanti: potrebbe dunque accadere che, laddove la Costituzione prevede che intervenga una legge del Parlamento, a decidere tutto sia invece un Commissario governativo, come se definire il contenuto essenziale dei diritti costituzionali equivalesse a rifare una strada, un acquedotto. Il Ddl Calderoli codifica che l’attribuzione delle nuove competenze alle regioni dovrà essere preceduta dall’approvazione dei Lep. E tuttavia, poiché tale attribuzione sarà contenuta in una legge ordinaria, non avrà la forza di vincolare le pari-ordinate leggi ordinarie di recepimento delle Intese tra Governo e singole regioni: niente assicura che queste ultime non potranno quindi fare eccezione alla prima, derogandola. Dunque, l’approvazione delle Intese con le regioni potrebbe comunque malauguratamente avvenire senza che siano prima definiti i Lep. In questa prospettiva, sbandierare l’impegno a definire e finanziare la copertura dei Lep in tutto il territorio nazionale prima che si avvii il processo operativo dell’autonomia differenziata, appare uno specchio per le allodole. Insomma, un gran guazzabuglio: Lep difficili da definire in modo rigoroso e complicati da misurare per tutti i servizi essenziali. Zero risorse finanziarie aggiuntive per conseguire livelli standard omogenei tra le regioni. Come si fa, se non con un grande sforzo pluriennale, finanziario e non, a recuperare un gap già oggi scandalosamente elevato tra la qualità media del welfare e dei diritti di cittadinanza dei meridionali e quella dei residenti nelle più ricche regioni del Nord? Ma per il Governo e le forze politiche che lo sostengono, l’obiettivo è approvare la legge sull’autonomia differenziata al più presto, da portare in trofeo per ottenere consenso politico già nella prossima competizione elettorale per l’elezione del Parlamento europeo; noncurante delle dichiarazioni e suggerimenti puntuali da parte di esperti in occasione delle audizioni alla Camera, dei rilievi critici e osservazioni preoccupate provenienti da ampie fette della società civile e delle comunità religiose, da parte di istituzioni prestigiose, quali la Banca d’Italia e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio».
Sono in molti a sostenere che uno dei punti di forza su cui la Calabria potrebbe puntare per garantirsi risorse è la produzione di energia e lo stesso porto di Gioia Tauro. È una strada percorribile?
«Intanto, a mia conoscenza, vi è solo un qualche riferimento generico più che lo sventolare con forza, più per cercare di provare a far intravedere vantaggi possibili dell’autonomia differenziata anche per la Calabria, nonostante l’evidenza contraria. Trovo preoccupante la ricorsa delle singole regioni a mettere nel calderone dell’autonomia differenziata i propri “vantaggi comparati”, piccoli o grandi che siano. Nello specifico, quale vantaggio aggiuntivo dovrebbe estrarre la Calabria dal suo surplus di produzione di energia rispetto ai fabbisogni interni? Rivendicare maggiori royalties? Vendere all’esterno l’energia prodotta in regione a prezzi più alti? Regionalizzare centrali elettriche, parchi eolici, giacimenti di petrolio? Di cosa stiamo parlando? Un tale modo di procedere di tutte le regioni, finirebbe per attivare una competizione distruttrice con costi sociali ed economici per l’intero sistema nazionale. La Calabria, in ogni caso, con “vantaggi comparati” limitatissimi, sarebbe soccombente. In relazione al porto di Gioia Tauro, la cosa più saggia è tenerlo a riparo da questa spinosa questione dell’autonomia regionale. La forza del porto è la sua caratura di nodo logistico strategico nelle catene globali del valore e degli scambi commerciali tra l’estremo Est e l’estremo Ovest, e che presuppone dunque scelte e governance adeguate alla sua complessità. Dove sono in regione queste competenze sofisticate? Chi è in grado in Regione di governare processi così complessi e con tanti attori globali coinvolti? Stiamo attenti a non sciupare, con la cattiva scusa di ottenere e gestire nuove competenze, i nostri attuali punti di forza, che sono pochi e che pertanto dovremmo difendere e potenziare con determinazione». (r.desanto@corrierecal.it)
Il Corriere della Calabria è anche su Whatsapp. Basta cliccare qui per iscriverti al canale ed essere sempre aggiornato
x
x