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Scrittori in Calabria, Sonia Serazzi racconta il suo ultimo romanzo “Una luce abbondante”

I bimbi adulti di Sacravento difettati e magici. La scrittrice vive in un piccolo centro del catanzarese: «E’ qui che ho scelto di fiorire»

Pubblicato il: 29/04/2024 – 8:15
di Concetta Guido
Scrittori in Calabria, Sonia Serazzi racconta il suo ultimo romanzo “Una luce abbondante”

COSENZA Sacravento è un grembo di creature povere che vivono controvento ma che sanno pregare. Sono “difettate” e magiche e acchiappano la vita tra baracche di lamiera, viottoli polverosi, sacchi di spazzatura nei campi verdi. I lettori che si immergono in “Una luce abbondante” diventano abitanti di questo paese, dove «c’è qualcosa di sacro e qualcosa che soffia, come la voce dello spirito», dice l’autrice. Sonia Serazzi è nata a Napoli e vive in Calabria, a San Vito sullo Jonio, 1600 abitanti appena. E’ gelosa del suo privato ed è inutile cercarla sui social. Non possiede profili. Usa soltanto whatsapp e se sei fortunato puoi scambiare con lei messaggi vocali su piccole cose quotidiane, ma anche sull’universo. Torna la sua voce letteraria originale e dirompente, che si era fatta conoscere con “Non c’è niente a Simbari Crichi”, romanzo d’esordio, pubblicato vent’anni fa e ristampato di recente, e poi con “Il cielo comincia dal basso”.
“Una luce abbondante” è da poco uscito, nella collana “Velvet”, di Rubbettino.

E’ un libro popolato da bambini che crescono in fretta e da genitori che non diventano adulti. La protagonista è Francabbù dallo «sguardo appuntito», una bimba che non vuole parlare e quando decide di farlo dice tutto in una sola frase. «Non è giusto!». Convive con una madre «malata di sogni», un modo lieve dell’autrice per declinare la follia. La madre è Marinzaina, sei dita a mano, accumulatrice seriale «perché tutto merita un posto nella vita»; colleziona biglie di vetro ed è convinta di partorire angeli. Il padre di Francabbù è Silverio, fallito come prete e come fornaio, campione di generosità e del soccorso alle vite altrui, panettiere delle lacrime più che della farina. Per entrare a Sacravento devi lasciarti andare, come un tuffatore, mollare gli ormeggi e seguire l’onda dei personaggi addolorati, feriti, con le loro storie crude in una scia di luce. Marinzaina nella sua casa soffocata da cumuli di vestiti, scatole, giocattoli, pezzi di qualcosa raccolti dagli scarti della gente, accoglie Marsol, un bimbo bulgaro che subisce violenza da un vecchio, ma non la riconosce come tale, perché non sa cosa sia. «In certi giorni l’innocenza è impossibile», dice Francabbù. «Perché una violenza narrata con gli occhi puri di un bimbo è una cosa che non si può sopportare», dice la scrittrice. C’è poi “suor Teresa di Cristo e basta”, che si è levata l’abito religioso e accudisce una bimba asmatica, attaccata a una bomboletta di ossigeno che si porta dietro nelle stanze dei giochi e delle nuove fratellanze.

L’autrice è in tour per incontrare i lettori. Il 9 maggio sarà al “Salone del libro” di Torino, stand Rubbettino, alle 18, con Andrea di Consoli. Il 9 giugno a Pizzo Calabro, libreria Streusa, e il 20 luglio a Roccella Jonica, Largo Rita Levi Montalcini. Alla Feltrinelli di Cosenza, in un dialogo denso con la giornalista Alba Battista, ha commosso e incuriosito. All’“Isola del tesoro” di Vibo Valentia, la libraia l’ha accolta con una bambola fatta a mano e un sacchetto di sfere colorate attaccate al vestitino bianco e dorato. Sonia Serazzi ama le biglie di vetro come la sua Marinzaina e come la scrittrice francese Colette. Le trovi anche nella casa di San Vito allo Jonio, ereditata dalla nonna paterna, dove ci sono tanti libri, girandole del vento e piccoli oggetti, ricordi di momenti preziosi. C’è una mucca di legno che piega le gambe se le premi la pancia. Un giocattolo vintage a cui è molto legata perché le ricorda Chagall e il suo il dipinto “Mucca con l’ombrello”. Nel mondo della Serazzi nulla è a caso. Anche dietro il personaggio di Silverio c’è una storia. Stesso nome di un libraio gentile conosciuto a Cosenza.

Sei calabrese o napoletana? E come mai ti sei ritrovata a vivere in Calabria?

«Sono meticcia, perché la mia mamma era sarda, il mio papà è mezzo napoletano e mezzo calabrese. Mia nonna era di San Vito allo Jonio, per cui siamo tornati in un luogo che ci apparteneva ».

Perugia è stata la tua città degli studi universitari in filosofia.

«Sì e pensa che non avevo nessun legame con Perugia, l’avevo visitata in terza media e l’ho amata da subito e tuttora la amo molto ».

Come si svolge la tua vita?

«E’ molto semplice, molto raccolta, con poche amicizie ma autentiche, dedicata allo studio perché la tranquillità del posto in cui abito me lo concede; faccio lunghe passeggiate in mezzo ai campi. Mi piace molto vivere così e andrei a vivere con gioia in Umbria perché là riuscirei a fare le stesse cose. Il luogo che ho scelto per fiorire è San Vito sullo Jonio, ma dovendo pensare a un posto in cui vorrei scappare, penso all’Umbria.

Niente social?

«Non sono capace, purtroppo per me, di quello che si chiama small tolk, tendo alla profondità e trovo molto faticoso gestire i rapporti molteplici. Io sono grata ai miei lettori, a chi viene alle presentazioni dei miei libri, quando vanno via poi ricordo i volti, come erano vestiti, ogni dettaglio. A me piace guardare la gente che ho davanti, quindi non ho i social anche perché voglio stare attenta a tutti quelli che incontro davvero»

Una “terra capace di grande durezza e di grande misericordia”. E’ questa la tua Calabria?

«La protagonista de “Il cielo comincia dal basso” dice: «Mi piace questo sud perché ti lascia campare, come una melanzana viola nei campi rossi di tramonto». Ciò che amo della Calabria e che si trova anche in “Una luce abbondante”, è la capacità di lasciare esistere, nel senso di lasciare essere. In questa terra, che per gli indicatori produttivi spesso è indietro, anche chi può sembrare inutile è custodito da una rete di relazioni e di affettività. E questo accade specialmente nei piccoli centri. Mi piace molto questa cosa, cioè che la persona fragile in un piccolo centro non è emarginata, ma è integrata ed è mescolata alla vita»

Il tuo libro è dedicato ad Antonietta Casula, tua madre

«Quando è morta ho pensato “adesso sono finite le favole”, perché parlavamo tantissimo, anche quando litigavamo. La mia, come molte mamme, ha rinunciato a molto per la famiglia, per i figli. Non ho scritto il suo cognome da sposa, nella dedica, perché volevo onorare la ragazza che è stata e che ha smesso di essere per mettere al mondo me e i miei due fratelli».

In un incontro con il pubblico hai detto che segui il precetto di Hemingway: scrivere di cose che si conoscono. Tu pratichi da sempre il volontariato. E’ dalla tua esperienza che nasce questo libro sui bambini feriti?

«Sì, mi capita di incrociare spesso vite ai margini, anche se la storia di Francabbù nasce dal trafiletto di un giornale in cui si parlava di una minore che viveva in una situazione simile a quella che descrivo nel libro.

Io consegno questi bimbi ai lettori perché voglio che si acuisca lo sguardo sul mare di orfani ignoti che ci circonda. Io racconto quello che incrocio e mi sforzo, però, di farlo con profondità, perché possa diventare la storia di tutti. Nei miei libri provo a raccontare la vita, la morte, l’amore, la figliolanza, l’accudimento, la tenerezza, la passione. Sono cose che riguardano tutti, in un piccolo paese e in una grande città».

Una creatura fragile è Marinzaina. Lei crede di partorire angeli. Qual è il significato di questa dolce follia?

«In realtà questa cosa degli angeli è un simbolo di tutte le solitudini che provano a farsi compagnia. Ognuno ha qualcosa che lo fa sentire meno solo, può essere un amore, può essere un’amicizia, lei s’inventa gli angeli».

I tuoi personaggi hanno nomi originali. Quello di Silverio è ispirato a una persona vera.

«Per me era già un nome familiare perché in Sardegna è frequente. Poi un giorno alla Mondadori di Cosenza ho conosciuto un libraio, dotato di una dolcezza smisurata, che si chiama così. Io ho scritto il suo nome sulla mano per non dimenticarlo. Lui ha preso la penna e mi ha detto “anche io scrivo il tuo sulla mia mano”. Io volevo dire “ognuno di noi è prezioso quindi merita la memoria del suo nome”, quando lui ha fatto lo stesso mio gesto sono rimasta colpita e ho capito che poteva essere il mio Silverio, l’uomo soccorrevole, generoso».

Dove potrebbe essere Sacravento? E’ ispirato a un luogo reale?

«E’ un paese ai margini. A me piaceva raccontare la marginalità, la famiglia sbagliata che però insegna delle cose giuste, la gente povera che però ha dentro di sé la ricchezza. Mi piaceva mostrare una società che non è fondata sui trionfi. Sai cosa penso del mio libro? Che va letto come un movimento ininterrotto di bene. In questa storia vince chi si dona e perde chi rimane fermo, chiuso in se stesso. Io l’ho capito dopo averlo scritto».
E’ l’onda di solidarietà e poesia che si alza per le strade di Sacravento, dove i bambini «asciugano le lacrime e acchiappano la pioggia» e nelle loro preghiere dicono cose da adulti. «Mostrami la forza delle mie idee, perché le idee degli altri sono belle, ma a me piacciono quelle che ho già».
(redazione@corrierecal.it)

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