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La “vecchia” guerra tra le cosche del Vibonese: agguati e omicidi per la conquista del territorio

L’operazione coordinata dalla Dda ha fatto luce su quattro omicidi avvenuti agli inizi degli anni ’10 del 2000 e le contrapposizioni tra Mancuso-Patania e Tripodi-Piscopisani

Pubblicato il: 06/05/2024 – 15:43
di Giorgio Curcio
La “vecchia” guerra tra le cosche del Vibonese: agguati e omicidi per la conquista del territorio

VIBO VALENTIA Una pagina sanguinosa che ha caratterizzato una fase storica della ‘ndrangheta calabrese che pare ormai lontanissima, ma ancora attuale. Lo dimostra l’operazione portata a termine questa mattina dagli uomini della Polizia della Questura di Vibo Valentia e i Carabinieri, con l’arresto di 14 persone su ordine del gip, al termine di una lunga inchiesta della Dda di Catanzaro.

Conquistare e difendere il territorio

L’obbiettivo era ricostruire quattro gravissimi fatti di sangue avvenuti tra il 2008 ed il 2012, una serie di omicidi tutti strettamente collegati tra loro e che vedono coinvolti, una serie di soggetti collocati ai vertici di diverse cosche di ‘ndrangheta in lotta per il controllo del territorio. I Tripodi e i Piscopisani che, all’epoca, erano di fatto “gemellati”, e il cui capo indiscusso è considerato Salvatore Tripodi, con Francesco D’Ascoli nella veste di “braccio armato” e contrapposti, nell’ambito di una cruenta faida, ai clan, a loro volta alleati, dei Mancuso e dei Patania, entrambi arrestati nel blitz di oggi.
Secondo gli inquirenti della Dda di Catanzaro e come riporta il gip nell’ordinanza, dunque, gli omicidi di Massimo Stanganello, Michele Palumbo, Mario Longo, e Davide Fortuna sono da ricondurre ad esponenti della criminalità organizzata, maturati nel tipico contesto ‘ndranghetista e finalizzato alla acquisizione e alla conservazione del predominio sul territorio, «attraverso l’eliminazione di tutti coloro che possano, in qualunque modo, ostacolare i propri interessi economici o minare l’incolumità dei propri sodali, la sicurezza dei loro traffici e la capacità di guadagnarsi l’impunità per i gravi delitti commessi nell’esecuzione dei rispettivi programmi criminosi».


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La “guerra” tra cosche

La lunga scia di sangue che ha caratterizzato i primi anni ’10 del 2000 sono ancora una macchia indelebile della storia criminale vibonese e gli investigatori non hanno mesi smesso di volerci vedere chiaro.
Cadaveri e proiettili, agguati e morti per le strade, in spiaggia, davanti a figli e parenti. Messaggi all’epoca chiarissimi e il frutto di una terribile guerra di ‘ndrangheta tra due fazioni distinte: Mancuso-Patania e Tripodi-Piscopisani, in lotta per il dominio di una porzione di territorio che è costata vittime e sangue, a costo di pagare con il carcere a vita.

Michele Palumbo

Già nel 2012 l’operazione “Gringia” aveva sferrato un primo colpo, con l’arresto dei responsabili degli omicidi di Michele Mario Fiorillo, avvenuto a Francica il 16 settembre 2011 e di Giuseppe Matina, commesso a Stefanaconi il 20 febbraio del 2012. «I componenti del gruppo di fuoco dell’omicidio di Michele Palumbo, per come confessatomi da Rosario Battaglia, furono Tripodi, D’Ascoli e Salvatore Vita». A dirlo fu il collaboratore di giustizia, Raffale Moscato ai magistrati della Dda di Catanzaro e il cui verbale su poi inserito negli atti dell’inchiesta “Maestrale-Carthago”. L’assicuratore 45enne era ritenuto uomo del boss Pantaleone Mancuso “Scarpuni” e fu brutalmente ucciso nel piazzale di casa, davanti agli occhi della figlia. Esempio eclatante di come il “locale di Piscopio” avrebbe voluto scalzare i Mancuso da Vibo Marina e dintorni, scriveva all’epoca il gip nelle pagine dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere. A fornire gli spunti investigativi furono, in particolare, due pentiti. Il primo, il lametino Giuseppe Giampà e poi ancora Moscato. Secondo quanto riferì Giampà, l’uomo di fiducia di “Scarpuni” su Vibo, ovvero Michele Palumbo, «era stato ucciso per dispetto perché non si trattava di un soggetto inserito all’interno della criminalità organizzata ma era amico di Pantaleone Mancuso ‘Scarpuni’ al quale curava le pratiche assicurative». Secondo Moscato, invece, Palumbo «in realtà era stato ucciso dai Tripodi per riprendersi il territorio per le estorsioni, anche se Pantaleone Mancuso ha sempre dato la colpa ai Piscopisani». Quell’omicidio fu una sorta di spartiacque che Moscato spiega così: «Dopo che fu assassinato Palumbo, su dieci lavori nella zona di influenza, tutti e dieci dovevano passare dai Piscopisani e da Tripodi nel senso che o si pagava una somma a titolo di estorsione o si facevano lavorare i mezzi dei Tripodi».

L’omicidio Fortuna

Ancora più eclatante fu l’omicidio di Davide Fortuna, ucciso a luglio del 2012 con 5 colpi di pistola a Vibo Marina in spiaggia, davanti ai figli. Una vera e propria sentenza di morte che doveva essere eseguita perché così è stato deciso da chi muove i fili della guerra tra le famiglie mafiose del vibonese. Fortuna, infatti, era considerato un soggetto borderline, in ascesa nel panorama criminale vibonese, che gestiva alcuni esercizi commerciali a Bologna senza mai perdere i contatti con quello che era il suo ambiente d’origine, conteso tra le cosche di Stefanaconi e Piscopio. L’agguato mortale peraltro avvenne a pochi mesi dall’attentato in cui fu ucciso Francesco Scrugli e ferito Rosario Battaglia. Quest’ultimo è il cugino di Fortuna. Proprio a casa sua, quella sera, Scrugli e Battaglia si stavano recando assieme a Raffaele Moscato che rimase ferito nell’attentato di marzo.

Mario Longo

Mario Longo

Qualche mese prima, invece, si consumò l’agguato che costò la vita a Mario Longo, assassinato, invece, nei pressi dello stabilimento “Snamprogetti” nel momento in cui si trovava alla guida della sua Matiz, a circa un chilometro dall’abitato di Triparni, sulla Provinciale che conduce a Portosalvo, frazione del Vibonese. Prima della morte di Longo, l’ultimo omicidio fu quello di Francesco Scrugli, avvenuto poco più di una settimana prima a Vibo Marina mentre a febbraio c’era stato l’assassinio di Giuseppe Matina, a Stefanaconi. Longo, 50 anni, era considerato una figura borderline. A delinearne i contorni dell’omicidio fu ancora una volta il pentito Moscato. Fu lui a spiegare agli inquirenti che Longo fu ucciso per un sospetto, cioè quello di essere un confidente della polizia ma anche un appartenente del clan Patania. (g.curcio@corrierecal.it)

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