«Tu fretta di vivere qualcosa, e ogni cosa è già un ricordo liso, e adesso la pubblicità». Con questo verso, Claudio Baglioni espresse, a metà degli anni ’80, la voracità del consumismo, che bruciava – e brucia – il futuro e il passato insieme, nell’eterno presente commerciale. Più avanti, nel ’92, il sociologo Roland Robertson avrebbe definito i tratti della nuova era globale come «compressione del mondo e intensificazione della coscienza mondiale in quanto insieme».
Della contrazione del tempo e dello spazio René Guénon si era occupato già nella prima metà del secolo scorso. Nel suo volume “Il regno della quantità e i segni dei tempi”, del ’45, si legge del tempo sempre più accelerato, che «contrae lo spazio e se stesso progressivamente». Dunque, secondo il filosofo francese, «la fretta, caratteristica che accompagna i moderni in ogni cosa, non è altro che la conseguenza dell’impressione confusa che essi provano di questo fatto». “Essere senza tempo” è il libro del filosofo Diego Fusaro, del 2010, che analizza e critica la «filosofia della fretta», inquadrata a partire dall’accelerazione della storia operata dalla prima Rivoluzione industriale. Nel pieno di Industria 4.0, iniziata nel 2011, oggi l’accelerazione della storia è ancora più marcata e sfuggente rispetto alla prima decade degli anni 2000, e la memoria umana appare, nel quotidiano, volatile tipo la Ram. A cena non ricordiamo che cosa abbiamo mangiato a pranzo: la proiezione della mente e della coscienza è verso il domani inteso come giorno dopo, spesso meccanica, priva di progetto, senso, obiettivo.
Dalla seconda metà degli anni Novanta, il tempo sembra scorrere più rapidamente. Internet conosce uno sviluppo continuo: aumenta la velocità di connessione, si moltiplicano le offerte del servizio e si allarga l’accesso alla rete: il mondo entra nelle case, di New York come di Pallagorio (Crotone). È la vittoria di un egualitarismo apparente, prodotto dal sistema capitalistico per elevare consumi e profitti: a Simeri Crichi (Catanzaro), per dire, possiedono gli stessi cellulari che girano a Los Angeles; a Scandale (Crotone), per mero esempio, si è visto lo stesso abito indossato dalla diva della tv appena maritata. È il trionfo delle merci, che escono dal mercato della piazza locale – il quale scompare come la partecipazione diretta dei sensi alla compravendita – e giungono ovunque, sono acquistabili in ogni momento, da ogni parte.
Fretta continua, perdita della memoria, omologazione dei gusti e dei desideri e smarrimento cognitivo ed esistenziale sono, come abbiamo visto, le costanti del nostro tempo, che riduce lo spazio, come aveva intuito Guénon; anche perché, aggiungiamo, nel viaggio perpetuo delle merci non esiste più centro né periferia, non c’è geografia fisica né politica. E oggi merci sono pure i dati, che si spostano a velocità impressionante, in quantità smisurate.
Allora questo movimento di merci, dati e (ovviamente) capitali determina il dominio di un’antropologia, dell’homo emptor, cioè dell’uomo acquirente, che rimuove e sostituisce usi, costumi e tradizioni locali. Così svanisce il senso della famiglia e della tenerezza che la pubblicità «Dove c’è Barilla, c’è casa», del 1986, l’anno di Černobyl’, racchiudeva e traduceva in 60 secondi nel mostrare il salvataggio di un gattino sotto la pioggia da parte di una bimba con due trecce e l’impermeabile giallo, una Greta Thunberg ante litteram, che per cena ritornava dai genitori dopo aver perduto lo scuolabus e portava con sé quel piccolo amico. Prova a recuperarne il sentimento il recente spot del Mulino Bianco «C’è un mondo più buono», il quale mostra l’autista di uno scuolabus che, senza palesarsi, riporta a una bambina il proprio orsacchiotto, simbolo di tenerezza e fantasia in un mondo che, è il messaggio morale della pubblicità, avrebbe bisogno di credere e sperare, come indica l’occhio che uno spaventapasseri, in un campo di grano biondissimo, strizza al pupazzo della piccola. L’idea è geniale, il contesto è mutato e, a differenza del richiamato spot del 1986, in cui era solito, naturale, che una bimba desse casa e famiglia a un micetto abbandonato, oggi le buone azioni sono ben più rare e i gattini si possono acquistare come i pesciolini, i pappagallini o i criceti, quali riempitivi del vuoto domestico.
L’immagine imposta nello spazio pubblico ha un potere condizionante, omologante, ha insegnato il filosofo Slavoj Žižek nel suo film, del 2012, “Guida perversa al cinema”. Lo sapeva benissimo l’attore Carmelo Bene, che spiegò quanto il gesto umano venisse amplificato in tv e ogni volta sperimentò una messinscena estemporanea per ipnotizzare il pubblico e (s)drammatizzare la sua presenza nel piccolo schermo, al “Maurizio Costanzo Show”.
Le immagini venivano (col)legate a delle storie, sino alla fine del Novecento, come ci ricorda il graduale avvicinamento della macchina da presa sull’insegna della Banca nazionale dell’Agricoltura, nella memorabile inchiesta di Sergio Zavoli sulla strage di Piazza Fontana, trasmessa durante il programma Rai “La notte della Repubblica”. Invece oggi le immagini sono esse stesse storie, lo si evince intanto dai social. Dunque, la pubblicità e la comunicazione visuale nel suo complesso consentono di indagare, cogliere e ricostruire le trasformazioni sociali e antropologiche indotte dal capitalismo e dalla logica dei consumi che ne dilata l’estensione, mentre il tempo si riduce e lo spazio si accorcia.
Anche le canzoni ci permettono di cogliere l’evoluzione dei tempi. Nei brani “Weekend”, del ’93, schopenhaueriano e leopardiano per l’aspettativa ciclica, e “Gli anni”, del ’95, gli 883 raccontarono la ripetitività, sino alla noia, della vita giovanile negli anni Novanta, segnata dall’onnipresenza di motorini e motociclette per le strade urbane; dagli assembramenti di ragazzini e maggiorenni lungo i marciapiedi e nei locali; dalle “vasche” per il corso del paese; da una sessualità inespressa che cedeva il posto all’amicizia, a una speciale comunione che la gioventù allora offriva per la spensieratezza che l’accompagnava, come Claudio Lolli aveva esposto molto prima, nel ’72, nella canzone “Michel”, costruita sull’insistenza della domanda «ti ricordi?» quale espediente narrativo.
Nell’ultimo scorcio del Novecento si registrarono in Italia gli effetti del boom economico. E allora i ciclomotori, i jeans firmati e gli oggetti del mercato non ancora globalizzato cominciarono a diffondersi, a diventare un elemento identitario del singolo e del gruppo di appartenenza: paninari, metallari, punk eccetera.
Sino al ’92, l’anno della frantumazione dei partiti per le vicende dell’inchiesta “Mani pulite”, le ideologie politiche si mantennero, seppure attenuate, nell’universo giovanile. Ne serbo un quadro nitido. Francesco, tra i miei amici più fidati, era comunista e ogni sabato sera lo canzonavamo ironizzando sulla rigidità di Fausto Bertinotti, che poi si sciolse come neve al sole. Nel ’93 uscì “Curre curre guaglio’”, album impegnato dei 99 Posse, band dell’estrema sinistra che allora spingeva per il «salario garantito», ora diremmo «minimo», e ribadiva il proprio «rigurgito antifascista». Quasi nessuno, tuttavia, nella canzone come nel regno delle immagini, si interessò del Trattato di Maastricht e ne comprese l’origine, gli sviluppi politici ed economici che avrebbe potuto avere. Nella pellicola “Lisbon story”, capolavoro di Wim Wenders del ’94, figura, per esempio, un mero passaggio entusiastico sull’unità dell’Europa senza frontiere.
L’unificazione monetaria, ancora oggi priva di quella politica e istituzionale, passò in cavalleria e l’Europa divenne un puro centro burocratico e burocratizzante a sé, lontano dalle periferie, avulso dalla disamina e considerazione delle profonde differenze territoriali, dunque incapace di valorizzare appieno tipicità, specificità e peculiarità locali, di assicurare la concreta riduzione dei divari strutturali, economici, sociali e culturali tra le aree delle singole nazioni.
Anzi, vi è stata, negli anni, una spinta dell’Unione europea verso l’indebolimento dello Stato sociale e il consolidamento del libero mercato, tanto in virtù delle politiche monetarie ed economiche perseguite, quanto in forza di scelte molto precise: l’austerità come dogma, il Fondo Salva Stati come strumento di controllo e, di base, il vincolo del deficit entro il 3 per cento del Prodotto interno lordo, ristretto con il “Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria”. Allora la gente ha iniziato a stare male, per l’affermazione parallela del capitalismo finanziario, sempre più onnivoro e schiacciante, e per la progressiva scomparsa di tutele e garanzie: nel lavoro, nell’ambito del consumo e in quello dei diritti basilari, salute e istruzione in primo luogo. Ciò ha prodotto, a livello individuale e sociale, la diffusione della paura e della tristezza, della precarietà di ogni cosa: dal potere contrattuale del singolo ai rapporti personali, coniugali, professionali eccetera. Così, di riflesso, nella canzone non abbiamo più le narrazioni eroiche e partigiane di Guccini, le liriche e l’etica anarchica e cristiana di De Andrè, la potenza letteraria di Vecchioni, l’esoterismo, lo spiritualismo e il senso critico di Battiato e Sgalambro. E nella pubblicità mancano le imprese tipo la scalata di Megan Gale sullo Space Needle di Seattle, al suono di “Sky” della cantante Sonique.
I brani musicali che ascolta la generazione di mia figlia, che sono quelli che mandano le radio, si riferiscono a una gioventù annoiata, senza bussola, ardore, sogni e resistenza: da “Zeetta”, di Cara, a “Non lo sai”, di Shiva, a “Tuta gold” di Mahmood. In generale, non c’è più traccia, nella musica, di critica al sistema economico, che per inciso ha liquefatto la politica. Né si rinviene uno spirito di gruppo, di contestazione in nome di un ideale, di un desiderio, di un bisogno collettivo. Siamo distanti dall’indice puntato contro «il ministro dei temporali», che «in un tripudio di tromboni auspicava democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni». Ora quell’indice è fisso su un trackpad o su uno schermo di smartphone, per comprare nuove merci o per passare il tempo della noia. L’unico che non si contrae.
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